Salvo Palazzolo, per battere la mafia bisogna parlarne e proteggere i giornalisti
Spesso devono lanciarsi senza paracadute, ha detto alla Commissione parlamentare antimafia il giornalista di Repubblica sotto protezione rafforzata
OSSIGENO 20 febbraio 2025 – Ciò che serve per battere la mafia è innanzitutto che se ne parli di più e a tutti i livelli, per contrastare le campagne di comunicazione con cui le mafie ottengono consenso sociale. Ed è fondamentale fare conoscere all’opinione pubblica il ruolo che ancora oggi i boss mafiosi svolgono all’interno delle nostre comunità. Inoltre occorre riparare alcune falle nella sorveglianza dei mafiosi e assicurare maggiore protezione a coloro che denunciano, anche ai giornalisti che raccontano ciò che i mafiosi vorrebbero fosse taciuto. Lo ha detto il giornalista Salvo Palazzolo, inviato del quotidiano la Repubblica, edizione di Palermo, alla Commissione parlamentare antimafia, che lo ha ascoltato a Roma, a Palazzo San Macuto, il 12 febbraio 2025, dopo le minacce per le quali due settimane prima gli è stata rafforzata la protezione delle forze dell’ordine.
Il giornalista ha ricordato l’importanza di denunciare alle forze dell’ordine le violenze mafiose, sottolineando allo stesso tempo l’importanza di tutelare meglio coloro che si espongono personalmente contro le mafie, siano essi magistrati, forze di polizia, imprenditori, associazioni, e anche giornalisti che raccontano ciò che i mafiosi vorrebbero che non fosse raccontato. Purtroppo in Sicilia, troppo spesso questi giornalisti devono farlo anche se non hanno una rete di protezione, devono lanciarsi senza paracadute.
Parlando delle sue inchieste, Salvo Palazzolo ha evidenziato tre aspetti: “ritorno” e “relazioni”, e ha messo in evidenza una falla del sistema di monitoraggio dei detenuti mafiosi.
IL “RITORNO” si riferisce al rientro a Palermo dagli Usa dei mafiosi “scappati” dalla mattanza corleonese dei primi anni ’80 del secolo scorso, e dal ritorno in libertà di tanti boss e manovalanza varia, per fine pena o per forme attenuate di esecuzione della pena, come semilibertà o permessi premio. Alcune di queste persone, che si sono macchiate di crimini tremendi, di stragi e che affermano di essere cambiate, sono rientrate nei loro luoghi di origine, e passeggiano tranquillamente per le strade. Di loro, ha detto Salvo Palazzolo, la DDA di Palermo non sapeva niente, per un vuoto di comunicazione con i giudici di sorveglianza.
IL MONITORAGGIO – “La mia inchiesta giornalistica ha messo in evidenza una falla del sistema, e cioè che in Italia manca un monitoraggio dei mafiosi scarcerati – ha detto Palazzolo -. L’operazione che a Palermo ha portato in questi giorni all’arresto di 181 persone, ha messo in evidenza che molti dei boss finiti in manette erano già stati arrestati e scarcerati più volte. Occorre una banca dati, che faccia capire se queste persone che escono dal carcere, lo fanno col portafoglio pieno o vuoto, perché a molti di loro non sono mai stati sequestrati i beni. Il monitoraggio è fondamentale. Come credo sia fondamentale, e lo ha ricordato il presidente Mattarella, l’impegno educativo della società civile e delle associazioni nel raccontare questi fenomeni – ha continuato -. Serve a non lasciare soli i giornalisti che si occupano di mafia, magari vivono in provincia, senza un contratto, senza tutele, senza reti di protezione e si ritrovano spesso in situazioni complicate”.
LE “RELAZIONI”, l’altra parola chiave dell’esposizione di Salvo Palazzolo, si articolano su due livelli. Il primo è rappresentato dal potere economico-sociale, fatto di legami che vengono dal passato e dalla “tradizione”, che permettono la continuità delle frequentazioni e della contiguità con i “salotti buoni”, professionisti, imprenditori e politici. Relazioni che vengono passate in eredità alle nuove leve criminali e permettono di espandere e consolidare l’infiltrazione nel tessuto sociale a livello ‘alto’. Il secondo livello, non meno importante nel radicamento mafioso, è quello della ricerca del consenso sociale, soppiantando lo Stato nell’intercettare i bisogni delle comunità. Avviene attraverso vere e proprie campagne di comunicazione mediatica, che riescono a rafforzare la legittimazione sociale delle organizzazioni mafiose.
Un esempio di questo tipo di strategia, ha ricordato il giornalista, è quando ad aprile 2020, in pieno lockdown dovuto al Covid, Giuseppe Cusimano, giovane boss dello Zen, poi arrestato come nuovo capomafia del mandamento, organizzò nel quartiere una distribuzione di generi alimentari per acquisire consenso fra le classi sociali più disagiate. Palazzolo lo scrisse su la Repubblica/Palermo e Cusimano lo attaccò su Facebook, definendolo “peggio del Coronavirus”. LT-ASP
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