Reati dormienti che dovremmo cancellare dal codice. Sangiuliano ne risveglia uno
“Minacce a corpo politico”, pena prevista 7 anni, è un’eredità del Codice Rocco come le varie forme di vilipendio che sopravvivono e talvolta vengono contestate
OSSIGENO 5 ottobre 2024 – Il caso nato dalle dimissioni del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano si presta ad alcune considerazioni sotto un profilo finora trascurato. Dà infatti lo spunto per vedere che, ancora oggi, nel nostro paese, le norme penali che puniscono le offese recate ai rappresentanti politici e di governo non si conciliano con il diritto internazionale e con la libertà di espressione, e non soltanto quelle che disciplinano la diffamazione.
Partiamo dal fatto che lil 30 settembre 2024, con un esposto-querela, l’ex ministro Sangiuliano ha accusato Maria Rosaria Boccia di lesioni aggravate e di minacce, qualificando “minacce a corpo politico” dello stato, ai sensi dell’articolo 338 del codice penale, quelle che sarebbero state a lui recate.
Guardiamo bene quest’ultimo reato che prevede la condanna del colpevole alla reclusione fino a sette anni. È uno di quei reati che l’Italia repubblicana ha ereditato dal Codice Rocco del 1930 definiti “dormienti” perché vengono applicati raramente pur essendo in vigore. Furono concepiti durante la dittatura fascista per dare una forte protezione penale alle istituzioni pubbliche del regime e ai loro rappresentanti, una protezione che il diritto internazionale ritiene eccessiva, sproporzionata, che è in contrasto con l’ampia considerazione che dal 1948 la Costituzione ha dato al diritto dei cittadini di manifestare il dissenso politico.
Stupisce che le numerose e ampie cronache e i commenti dedicati al caso Sangiuliano non abbiano parlato dell’anacronistico risveglio di questo dinosauro della nostra legislazione. Un risveglio che merita attenzione.
Innanzi tutto perché conferma la necessità più volte segnalata di ripulire il codice togliendo di mezzo l’armamentario di ferri vecchi che “non rientrano nel diritto internazionale”, come ci ha recentemente ricordato l’UNESCO con il dossier “L’uso scorretto del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione” (leggi il dossier).
“Secondo il diritto internazionale – afferma l’UNESCO – le sanzioni penali contro la libertà di espressione dovrebbero essere applicate solo in via del tutto eccezionale e come ultima risorsa, nei casi più̀ gravi, come quelli che riguardano l’incitamento all’odio”.
Il reato invocato dall’ex ministro va al di là della fattispecie del vilipendio (disprezzo o “desacato” nel diritto spagnolo) che ancora oggi talora si applica alle offese recate a pubblici ufficiali, istituzioni e simboli quali la bandiera o altre insegne nazionali) e all’anacronistica accusa di “lesa maestà” (diffamazione di esponenti della monarchia regnante) che nei regimi repubblicani è stata grossolanamente sostituita dal vilipendio al capo dello stato. In Italia, come in molti altri paesi, questi reati sono ancora in vigore, fa notare con preoccupazione l’UNESCO.
Sono tuttora presenti e più o meno dormienti nel codice italiano, anche i reati di vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali, delle Forze armate delle Assemblee legislative del Governo, della Corte Costituzionale, dell’Ordine giudiziario, della nazione italiana (Art. 290 e 291 del codice penale) con pene fino a 5 anni di reclusione. Inoltre c’è un’aggravante per chi si rende colpevole di diffamazione “a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o a una sua rappresentanza, o a una Autorità costituita in collegio” (Art. 595, terzo comma, CP).
Dovremmo ripulire il codice dalle vecchie scorie. È una riforma a costo zero. Governo e parlamento possono farla aggiornando le leggi vigenti con l’aiuto di tutti i gruppi politici che, da tempo, fanno a gara dichiarando il loro impegno a difendere i diritti civili. ASP
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