Quei giornalisti che dicevano le verità scomode
Questo intervento è stato pronunciato il 12 novembre 2010 in occasione del convegno “Storie che non devono essere raccontate. Il giornalismo minacciato” organizzato dall’Università di Urbino
12 nov 2010 – Ci sono dei nomi che non dovremmo mai dimenticare: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Pippo Fava, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Carlo Casalegno e Walter Tobagi, Giancarlo Siani. Sono i nomi dei giornalisti uccisi in Italia dalla criminalità organizzata e dal terrorismo. Otto sono stati uccisi in Sicilia. Siani a Napoli. Casalegno a Torino. Tobagi a Milano.
Tutto ciò è accaduto dal 1960 a 1993. È una strage che non ha eguali in nessun Paese occidentale. E il bilancio non è completo: bisogna aggiungere almeno altri sei nomi, di giornalisti italiani uccisi all’estero, mentre seguivano le missioni internazionali di peace-keaping in cui l’Italia si cimenta con altri paesi per risolvere gravi crisi, per promuovere la pace e la sicurezza al di là dei propri confini: Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Maria Grazia Cutuli, Italo Toni, Graziella De Palo, Antonio Russo. Sono nomi che dovremmo scolpire nella memoria. Tutti dovrebbero sapere chi sono, soprattutto chi fa il loro stesso mestiere o comincia ad apprenderlo. Invece a molti di noi questi nomi non dicono nulla. Perciò dobbiamo chiederci cosa si fa per tenere viva la memoria di tutte queste vittime.
Certo, si fanno molte cose. Negli ultimi anni si fa più di prima. Ma non si fa ancora abbastanza. Lo dico da fratello di una di queste vittime, Giovanni Spampinato, e anche quale responsabile di un’osservatorio, Ossigeno per l’informazione, istituito per difendere i cronisti minacciati ai nostri giorni e per tenere vivo il ricordo corretto ed onesto di tutti i giornalisti che sono stati uccisi mentre erano impegnati a fare fino in fondo il loro lavoro, ad assolvere il dovere professionale di raccogliere informazioni per informare l’opinione pubblica.
I giornalisti dovrebbero fare di più per tenere viva la memoria dei loro colleghi che hanno difeso con la vita l’onore della professione; che non hanno arretrato davanti a minacce, rischi, pericoli per svolgere la missione sociale propria del giornalismo quale infrastruttura essenziale della democrazia.
Un giornalista onesto, che fa il proprio mestiere a rischio della vita, e perde la vita, è una vittima del dovere, come lo sono i funzionari di polizia e i magistrati uccisi in servizio. Quindi a loro andrebbe reso onore. Non chiediamo iniziative retoriche. Non chiediamo di erigere monumenti ai giornalisti. Chiediamo solo tenere vivo un ricordo onesto e corretto di ognuna di queste vittime. È doveroso, per la società e per le istituzioni fare sapere alle nuove generazioni chi erano questi giornalisti, cosa hanno fatto nella loro vita, per che cosa sono morti. Ed è altrettanto doveroso impegnarsi perché si faccia piena luce su ognuna di queste morti. Io parlerò di alcuni di loro
Giovanni Spampinato
Giovanni Spampinato fu accusato di essere un ficcanaso importuno mentre faceva il cronista, mentre faceva domande sacrosante, mentre rivelava notizie vere, fondate, rilevanti, notizie che non piacevano a gente abituata a dire ai giornalisti cosa dovevano scrivere e cosa non dovevano scrivere sul loro conto. “Lascia perdere, chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni suoi colleghi più anziani. Accadde a Ragusa, in Sicilia, nel 1972. Giovanni non accettava il modo di fare la cronaca che era molto in voga, che si svolgeva, appunto, badando bene a non dispiacere i notabili e i potenti ma, anzi, facendo loro la riverenza. Perciò continuò a fare come riteneva fosse più giusto, come gli avevano insegnato a quella scuola di giornalismo che fu il quotidiano L’Ora. di Palermo. “Chi te lo fa fare?”, insistettero altri giornalisti di Ragusa che per “prudenza” e quieto vivere evitavano di fare domande e censuravano molte notizie. Giovanni non accettò il consiglio di lasciar perdere. Continuò a fare domande, a scrivere articoli in cui elencava le domande rimaste senza risposta più inquietanti riguardo a un misterioso omicidio.
Perciò lo consideravano un ficcanaso. Il 27 ottobre 1972 il suo assassino lo attirò in un tranello e lo uccise a bruciapelo con due pistole che si era procurato appositamente, poi si costituì dicendo: mi ha provocato. Al processo, la tesi della provocazione fu sostenuta dai difensori dell’assassino, che non si fecero scrupolo di denigrarlo, di dire che era, appunto, un ficcanaso, uno che non si faceva i fatti suoi. La tesi era assurda, ma l’assassino era figlio di un giudice, e forse per questo fu condivisa dai giudici, che in primo grado concessero all’assassino un trattamento di favore, gli diedero tutte le attenuanti possibili e immaginabili, compresa quella della provocazione. E la provocazione consisteva in ciò che Giovanni Spampinato aveva scritto nei suoi articoli di cronaca, nelle sue documentate inchieste. La provocazione consisteva nel suo mestiere di giornalista. In appello cadde dopo che il procuratore generale di Catania, Tommaso Auletta, pronunciando la requisitoria, disse: “Se un giornalista non fa quel che ha fatto Giovanni Spampinato, ditemi, perché esistono i giornali?”.
La risposta è arrivata solo trenta anni dopo, nel 2007, quando alla memoria di Giovanni Spampinato è stato assegnato il Premio Saint-Vincent di Giornalismo, il premio di giornalismo più prestigioso d’Italia. Credo che oggi nessun Tribunale oserebbe qualificare come atti provocatori gli articoli di cronaca di un giornalista. Erano altri tempi. Qualcosa è cambiato da allora, altre cose purtroppo stentano ancora a cambiare. Io questa storia l’ho raccontata nel libro C’erano bei cani ma molto seri- Storia di mio fratello Giovanni ucciso perché scriveva troppo, Ponte alle Grazie, 2009.
Vittorio Nisticò
Voglio dedicare alcune parole a Vittorio Nisticò, un giornalista che ha corso molti rischi, non è stato ucciso, ma sono stati uccisi tre giornalisti che lavoravano per il suo giornale: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato. Ho avuto l’onore e il privilegio di lavorare al giornale L’Ora di Palermo quando il direttore era ancora lui, il leggendario Vittorio Nisticò, che ha raccontato la sua straordinaria avventura professionale nel libro “Accadde in Sicilia”, Sellerio).
Vittorio è stato un maestro di giornalismo e, nel suo campo, un rivoluzionario. Nato a Cardinale, in Calabria, nel 1919, si era formato a Bari e poi a Roma, era stato un brillante cronista politico al quotidiano Paese Sera. Si trasferì in Sicilia, nel 1955, per dirigere L’Ora e diventò più siciliano dei siciliani. Prese in mano quel piccolo giornale e ne fece un affilato strumento di battaglia contro la mafia, contro i luoghi comuni, contro tutti i reazionari e gli affaristi. Aveva 35 anni e si rese subito conto di come andavano le cose in Sicilia, di come la mafia spadroneggiava in politica e negli affari, e si chiese: “Com’è possibile che nessun giornale ne parli? Che nessuno osi pronunciare la parola mafia?”.
In quegli anni, la mafia storicamente insediata nelle campagne, era sbarcata a Palermo e sparava, uccideva, faceva stragi per impossessarsi della città. Palermo. Eppure i giornali, la politica, la chiesa non vedevano nessuna mafia. Per loro non esisteva. Lo dicevano uomini di governo e anche il cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo. Dicevano che la mafia era “un’invenzione dei comunisti”, l’avevano inventata per denigrare la Sicilia e il governo. Dunque non se ne doveva parlava neanche lontanamente.
Vittorio decise di rompere quell’assurdo silenzio stampa. Perciò si circondò dei migliori giornalisti che c’erano in Italia, fra i quali Felice Chilanti di Paese Sera, di intellettuali eretici come Leonardo Sciascia e Danilo Dolci, costruì una squadra di giornalisti d’inchiesta di prim’ordine, nella quale fece entrare un giovane avvocato penalista, Sorgi e li mise a lavorare insieme, in squadra, giornalisti e non giornalisti, per mettere insieme tutte le notizie che nessuno osava pubblicare. Ne scaturì un’inchiesta con i fiocchi, un’inchiesta che è rimasta negli annuali del giornalismo. Fu pubblicata a puntate a ottobre del 1958. : fu presentata con una prima pagina formato poster. C’erà una foto gigante del boss Luciano Liggio con accanto la scritta a caratteri cubitali: “Quest’uomo è pericoloso”. La sera stessa i mafiosi fecero esplodere una bomba nella tipografia del giornale. Per poco, non distrusse la rotativa. “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”: annunciò il giornale il giorno dopo, e l’inchiesta andò avanti con il direttore e i redattori scortasti dalla polizia. Se volete sapere di più di Vittorio Nisticò e dei miei ricordi leggete il mio saggio “L’uomo che odiava le veline”.
Giancarlo Siani
La storia di Giancarlo è quella raccontata nel bellissimo film di Marco Risi, Fortapàsc. La sua storia è molto simile a quella di mio fratello Giovanni, nonostante mio fratello sia stato ucciso nel 1972 e Giancarlo nel 1985. Ci sono delle straordinarie somiglianze. Avevano perfino le stessi iniziali, ed entrambi sono stati uccisi nel momento in cui compivano 26 anni.
Giancarlo era un brillante giornalista, anche se era precario, come Giovanni, quando fu ammazzato dai killer della camorra, una sera di venticinque anni fa a Napoli. Stava tornando a casa dalla redazione del Mattino dopo una normale giornata di lavoro. Giancarlo Siani aveva pubblicato notizie sgradite alle forze criminali. In particolare era stato l’unico a pubblicare la notizia di un patto segreto stipulato tra i camorristi del clan Nuvoletta e i mafiosi siciliani di Corleone guidati da Totò Riina. Era un fatto clamoroso e assolutamente inedito. Solo lui aveva avuto l’ardire di mettere in piazza i segreti dei boss, danneggiandoli.
Al suo giornale, Il Mattino di Napoli, per quello scoop, era stato lodato ed era stato premiato con uno spostamento dalla redazione distaccata di Torre Annunziata alla sede centrale di Napoli.
I colleghi lo apprezzavano, lo stimavano. Gli avevano promesso che nel giro di qualche mese il giornale lo avrebbe assunto in pianta stabile, regolarizzando così la sua posizione.
Considerati giornalisti solo dopo la morte
Per inciso, occorre dire che molti dei giornalisti uccisi Italia non avevano un regolare contratto di lavoro giornalistico. Erano, come si dice, oggi, dei precari. Inoltre molti non avevano neppure il tesserino di giornalista, cioè non erano iscritti all’Albo. Non riuscivano a iscriversi perché non venivano retribuiti o avevano paghe saltuarie, proprio come avviene ancora adesso. La differenza principale è che oggi ci sono infinitamente più testate giornalistiche e radiotelevisive presso cui fare la gavetta. È interessante scoprire che molti di coloro che hanno avuto tanto coraggio e dedizione ai doveri del giornalismo non avevano neppure le garanzie basilari che spettano ai giornalisti stabilizzati e che anche oggi l’elenco dei giornalisti minacciati comprende in maggioranza giornalisti precari
Mio fratello,ad esempio, ebbe il tesserino di giornalista pubblicista dopo essere stato ucciso: il presidente dell’Ordine dei giornalisti venne a portarcelo al suo funerale, per rendergli omaggio.
A Napoli i colleghi di Giancarlo Siani gli dicevano frasi di questo tenore: “Stai buono. Hanno detto che fra poco ti assumono, non c’è più bisogno che fai delle cose straordinarie per metterti in vista. Lascia perdere, smettila di scrivere notizie per cui poi ti minacciano e devi avere paura. Chi te lo fa fare?”. Giancarlo non ascoltò questi consigli, continuò a raccogliere le informazioni più delicate, quelle che altri suoi colleghi evitavano di cercare, scansavano o fingevano di non conoscere. Continuò a scrivere notizie sgradite ai boss della camorra. Il suo fiuto, la sua concezione del giornalismo, non gli permettevano di agire diversamente. Non riuscì a girare la testa dall’altra parte neppure quando ormai il pericolo era nell’aria ed egli provava paura. Era consapevole dei rischi cui andava incontro, ma non voleva cedere alla paura.
Questo è un atteggiamento che si ritrova in tutte le storie dei giornalisti uccisi: a volte per denigrare, per minimizzare, qualcuno dice che erano “pazzi”, che si erano cacciatisi nei guai senza rendersene conto.
E invece no! Ognuno di loro era ben consapevole del rischio che stava correndo: erano coraggiosi ma avevano paura. Avevano la paura dei coraggiosi. Avevano visto in faccia il pericolo ed erano andati avanti lo stesso, sapendo che ciò che facevano poteva costare la vita.
La memoria per il futuro
Questa è la storia di Giancarlo, queste sono le storie che abbiamo ricordato noi oggi e sono storie che bisogna conoscere e ricordare.
Bisogna ricordarle, anche se scorrere il rosario delle vittime è triste, è doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa, fa venire voglia di strappare alcune pagine di storia, fa nascere il desiderio di rimuovere i ricordi dolorosi.
Non dobbiamo cedere a questa tentazione. Dobbiamo ricordare questi morti uno ad uno, dobbiamo impegnarci a tenere viva la loro memoria senza retorica, in modo oggettivo, e innanzitutto con un rigoroso lavoro di documentazione. Dobbiamo farlo per noi stessi e per le nuove generazioni.
Le storie dei giornalisti uccisi fanno piangere il cuore, ma dobbiamo conoscerle, perché contengono profonde verità, insegnamenti per il presente e per il futuro. Sono storie, che hanno la stessa funzione educativa delle favole degli orchi e draghi: fanno paura ai bambini, ma li aiutano a crescere.
Queste sono le favole che dobbiamo raccontare ai giovani giornalisti, soprattutto a chi frequenta le scuole di giornalismo, e a chiunque crede che in una democrazia le informazioni devono circolare liberamente. Dobbiamo ricordarlo a chiunque crede che le fondamenta del futuro debbano poggiare su una buona conoscenza del presente e del passato.
ASP
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