Noi giornaliste bersaglio. Marilù Mastrogiovanni: che cosa ho imparato
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L’intervento al webinair organizzato da Media Defence insieme a International Women Media Foundation e alla Colombia Foundation for Press Freedom sulla violenza di genere nel mondo dell’informazione
OSSIGENO 17 marzo 2022 – L’8 marzo 2022 la giornalista Marilù Mastrogiovanni ha rappresentato Ossigeno per l’Informazione al webinar internazionale organizzato da Media Defence di Londra (che sostiene il servizio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno) per affrontare in particolare i problemi di genere che rimangono irrisolti nel mondo dell’informazione. Marilù Mastrogiovanni, collegata da Bari, ha raccontato la sua storia di giornalista vittima di ripetute minacce e ha detto perché violenza di genere deve essere riconosciuta anche nel mondo dell’informazione.
Moderatrice del dibattito è stata Jeannette Smith di Media Defence. Oltre a Marilù Mastrogiovanni hanno partecipato: dalla Colombia, Maria Paula Martinez Concha di FLIP (Colombia Foundation for Press Freedom), Ela Stapley, di IWMF collegata dall’Inghilterra e Maria Paula Martinez, docente di “narrative digitali” presso il “Ceper-Centro studi sul giornalismo” dell’Università delle Ande.
Maria Paula Martinez ha analizzato la componente machista alla base delle minacce verso le giornaliste che sono bersaglio, soprattutto on line, di attacchi verbali violenti, il cosiddetto hate speech, se non di vere e proprie campagne mediatiche volte a denigrarle come donne per demolirle professionalmente.
Ela Stapley, consulente per International women media foundation e fondatrce di Siskin Labs, uno studio di consulenza specializzato sulla sicurezza on line per redazioni giornalistiche e singoli freelance, ha illustrato le attività che la sua organizzazione pone in essere per promuovere il lavoro delle donne reporter, per difenderle e sostenerle.
Di seguito, l’intervento di Marilù Mastrogiovanni.
di Marilù Mastrogiovanni
Concentrerò il mio intervento sulle minacce alle giornaliste come espressione di violenza di genere e sulla necessità che questo tipo di violenza di genere sia riconosciuta anche a livello giudiziario, in modo che le giornaliste possano avere giustizia e risarcimento del danno. Parlerò della mia esperienza personale e allargherò l’analisi al contesto nazionale, facendo anche delle proposte.
Prima di tutto voglio dire che quello che è successo a me succede a molte giornaliste in Italia e in Europa.
È successo anche a Dapfne Caruana Galicia a Malta: anche lei è stata oggetto di caricature offensive che l’hanno disumanizzata, è stata infangata sui social e ha anche subito attacchi incendiari. Ce ne hanno parlato le colleghe maltesi, durante il Forum delle Giornaliste del Mediterraneo che ho fondato sette anni fa: uno spazio libero per valorizzare i talenti delle giornaliste investigative e denunciare discriminazioni, sessismo, minacce di genere, anche online. Perché nelle minacce alle giornaliste c’è sempre una specificità di genere che ha a che fare con il corpo femminile: il desiderio di annientarlo, soggiogarlo, dominarlo.
Le donne sono sempre messe in discussione professionalmente, a partire dal loro genere.
Al Forum, sentiamo dalle vive voci delle colleghe, che questo accade in tutte le culture, in tutti i Paesi. all’origine del fenomeno vi è la cultura patriarcale, che è alla base della cultura mafiosa, che attraversa tutte le culture: quella di annientare e sottomettere le donne in quanto donne.
Quest’anno, grazie al GMDF (Global Media Defense Fund) dell’Unesco, insieme a Ossigeno per l’informazione, il Forum delle Giornaliste Mediterranee cercherà di monitorare le minacce di genere ricevute dalle giornaliste e quindi di cambiare la cultura patriarcale, che è alla base delle minacce, cambiando la lingua, spingendo i giornali a usare un linguaggio di genere.
Ma servono più fondi perché non possiamo analizzare tutte le minacce contro le giornaliste e, si sa, la prima regola del giornalismo è “se non ne parli, non esiste”. Le dinamiche che vi ho descritto sono le stesse in tutta Europa: è un’emergenza europea. In Europa, Ossigeno per l’Informazione è l’unico osservatorio indipendente ad effettuare un monitoraggio diretto e continuo – basato sul fact-checking – delle minacce ricevute da giornalisti, blogger e altri operatori dell’informazione a causa del loro lavoro, intimiditi per limitarne la libertà di stampa e d’espressione. Ma le minacce monitorate da Ossigeno sono solo la punta dell’iceberg. Questo per due ragioni: perché gran parte delle minacce non viene segnalata e perché l’Osservatorio dispone di risorse molto limitate ed è in grado di scandagliare solo una porzione del campo di osservazione.
Grazie alla metodologia scientifica utilizzata dal 2006 e alla capacità di rilevare episodi altrimenti non riportati dai media, i dati di Ossigeno per l’Informazione stanno facendo luce anche su ciò che accade in altri paesi europei.
Questa attività è ben nota alla Commissaria per la Libertà dei Media e al suo ufficio, che negli ultimi dieci anni ha più volte utilizzato la documentazione di Ossigeno per chiedere spiegazioni al governo italiano.
Ma diamo un’occhiata ai dati: secondo Ossigeno per l’Informazione l’anno scorso 384 giornalisti sono stati minacciati, 105 erano donne, il 27% sul totale delle minacce monitorate erano rivolte a donne giornaliste. Vi ricordate? Dicevamo: “Se non ne parli, non esiste”. Ebbene: l’Osservatorio italiano dei giornalisti minacciati del ministero dell’Interno ha pubblicato i suoi dati: 156 casi in 9 mesi. Invece secondo la Piattaforma per promuovere la protezione e la sicurezza dei giornalisti del Consiglio d’Europa, le minacce in Europa sono state appena 201, di cui 11 in Italia.
In questo modo scompaiono le minacce, le minacce ai giornalisti non sono un grosso problema e scompare il fenomeno della violenza di genere nei confronti delle giornaliste. In questo modo il problema delle minacce ai giornalisti e il fenomeno della violenza di genere nei confronti delle giornaliste è risolto con successo!
Ora, se posso parlare 5 minuti in più, vorrei parlare delle querele temerarie, che sono un fenomeno in crescita. Basta lo spettro di una richiesta di risarcimento danni a paralizzare molti giornalisti: il cosiddetto chilling effect, “effetto raggelante”. Secondo i dati del ministero della Giustizia, analizzati dall’associazione “Ossigeno per l’Informazione”, il 90% delle querele per diffamazione presentate non è finito in tribunale. Ciò significa che erano pretestuose e che erano state realizzate con l’intenzione di imbavagliare i giornalisti e costringerli a inchinarsi, a non scrivere, a non approfondire. Tuttavia, un errore può costare caro, e questo può significare il carcere: ogni anno in Italia vengono condannati circa 150 giornalisti. Aumentano le minacce ai giornalisti e anche le condanne penali. Sebbene il Parlamento possa discutere le numerose proposte legislative per eliminare il carcere per i “reati di opinione” e arginare le cause pretestuose e intimidatorie, non lo fa.
In effetti, le statistiche mostrano che sono gli stessi politici a portare avanti le cause più avventate. Quindi, una legge che aumenterebbe il livello di democrazia in Italia non si adatta ai nostri governanti. Non è conveniente per i politici avere giornalisti liberi.
Cento querele, nessuna condanna ma tante spese
Nei mie quasi 20 anni di lavoro Ho ricevuto almeno 100 querele temerarie e nessuna condanna. Ho affrontato un processo penale durato 11 anni e sono stata assolta su richiesta del Pubblico Ministero, assolta perché tutto quello che avevo riferito era vero. Ho dovuto difendermi, sopportando con grandi costi personali, mentre chi mi ha fatto causa non ha pagato nulla. Minacciare i giornalisti non costa nulla. È gratis. Quindi, dal loro punto di vista, vale la pena farlo.
Per questo sono tra le prime firmatarie di una richiesta inviata al Presidente della Repubblica italiana, di modificare la legge, per arginare le cause pretestuose ed eliminare il carcere per i giornalisti. La proposta si chiama “Io non sto zitta”.
Il mio problema, come quello di tanti altri colleghi e colleghe, è che, anche se siamo precari – scusate, intendo freelance – ci rifiutiamo di piegarci. Per me il giornalismo o è etico o non è giornalismo.
Tre anni fa una grossa holding mi ha chiesto di pagare 200mila euro entro quindici giorni o mi avrebbero denunciato. In Italia puoi farlo. Non costa nulla, quindi lo fanno. Questo è successo dopo che avevo scritto che la holding dava lavoro ai mafiosi, nel settore dei rifiuti. Mi hanno citato in giudizio: diverse querele intentate in varie procure. Hanno chiesto il sequestro del mio giornale. Il sequestro di un giornale in Italia è vietato dalla Carta costituzione, eppure un giudice è andato avanti e ha sequestrato il giornale. Per 45 giorni. Successivamente la holding è stata raggiunta da interdittiva antimafia, i suoi appalti milionari revocati, perché ritenuta infiltrata dalla mafia. Ma sono stato mandata a processo con un decreto di citazione diretta, come un assassino colto sul fatto con le mani macchiate di sangue. Poi sono stata assolta.
Ho subito diversi tipi di minacce: potrei raccontarvi di quando ho trovato il mio cane bastonato a morte nel mio giardino. Potrei raccontarti della notte in cui qualcuno ha dato fuoco al retro della mia casa, mentre io e la mia famiglia dormivamo. Momenti di puro terrore. Potrei raccontarvi di quando un mafioso è venuto in ufficio per dirmi che il suo unico obiettivo nella vita era seguirmi e fotografare e registrare tutto quello che stavo facendo.
Ho ricevuto anche minacce online.
Un politico, il rappresentante eletto della mia stessa città, ha scritto su Facebook che sarebbe venuto a prendermi. All’epoca avevo pubblicato un’inchiesta su come un boss di una mafia locale, la “Sacra Corona Unita”, la mafia salentina, riciclasse denaro della droga attraverso aziende apparentemente pulite. Quel politico era il braccio destro del boss ed è stato eletto nel partito del sindaco. Avevo le prove e ne ho scritto. Mi ha minacciato dicendo “Troia, dimmi dove sei, vengo a prenderti”. Perché, non dimenticate, una donna indipendente è, prima di tutto, sempre, una puttana. La polizia è arrivata per proteggermi. Ma su Facebook gli amici del boss hanno continuato il loro assalto.
Quando il boss è stato ucciso (colpito da fucili Kalashnikov) i suoi amici su Facebook lo hanno definito “un leone, un eroe” mentre io ero “un infame, una puttana”. Hanno postato questi commenti anche sulla pagina Facebook del sindaco della mia città, ma lui non ha ritenuto opportuno rimuoverli. Anzi, ha fatto affiggerei ai muri dei manifesti in cui sosteneva che stavo infangando il buon nome della nostra città invitando i cittadini a reagire contro di me. Non ha chiesto loro di reagire contro la mafia, ma contro la giornalista che denunciava la mafia. Poi il comitato elettorale del sindaco ha affisso altri manifesti che mi ritraevano seppellita in una fossa.
Altre minacce: due anni fa ho ricevuto due attacchi di “e-mail bombing”: in pochi secondi ho ricevuto 4.000 e-mail con le frasi “la morte sta arrivando” e “devi stare zitta, infame”.
Un “infame” per la mafia è una persona che li ha traditi, che parla, che non fa parte dell’organizzazione mafiosa che, per loro, è il vero Stato. Le persone “infami” devono essere eliminate.
In Italia, 21 giornalisti sono sotto protezione della polizia, a causa delle minacce mafiose.
Ho dovuto trasferirmi a 250 kilometri di distanza da casa mia. Ho ancora la protezione solo quando torno nella mia città natale.
Eppure mi sento una persona fortunata. So che molti di voi si chiedono perché io dica questo. Sono fortunata perché sono padrona del mio destino: non ho padroni, ho fondato la mia piccola casa editrice, ho fondato il Forum delle giornaliste del Mediterraneo per aiutare altre giornaliste investigative ad alzare la testa. E posso decidere in coscienza di andare avanti: siamo una cooperativa di giornalisti, siamo i proprietari del nostro giornale. Certo, con enormi sforzi e con grande paura. Perché ho paura, ho tanta paura. Ma questo non mi impedisce di continuare a svolgere al meglio il mio lavoro.
Non credete a coloro che dicono di non avere paura. Abbiamo bisogno di avere paura per essere cauti, attenti. Ecco cos’è il coraggio: andare avanti, nonostante la paura.
Marilù Mastrogiovanni è socia di Ossigeno e presidente della Giuria del Premio internazionale di Giornalismo dell’UNESCO intitolato a Guillermo Cano
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