Sandra Amurri dopo 13 anni sotto processo

La cronista, come anche altri ex giornalisti del quotidiano, è difesa dall’Ufficio Assistenza Legale di Ossigeno per una querela di un magistrato

La giornalista Sandra Amurri, inviata speciale del Fatto Quotidiano, è ancora a giudizio in Corte d’Appello per diffamazione a mezzo stampa per un articolo pubblicato nel 2006 sul quotidiano l’Unità. E’ difesa dall’Ufficio di Assistenza legale gratuita di Ossigeno per l’Informazione, attraverso l’avvocato Andrea Di Pietro. Nel 2006, quando ha pubblicato l’articolo incriminato, la giornalista era tutelata dall’editore de l’Unità. Poi, l’editore è fallito e lei ha perso completamente la manleva, cioè il diritto a non sopportare personalmente le conseguenze economiche delle condanne per diffamazione e le spese legali.

Il 30 aprile 2012, per la stessa querela, Sandra Amurri è stata condannata in primo grado, a 600 euro di multa, per diffamazione a mezzo stampa di un magistrato, già in servizio presso la Procura di Firenze, per l’articolo pubblicato su l’Unità in data 3 dicembre 2006 dal titolo: “Patacche e rimborsi d’oro: il ‘teatro’ di Scaramella”.

Nell’articolo scriveva del magistrato e della sua pregressa conoscenza di Mario Scaramella (soggetto condannato a quattro anni di reclusione per traffico di armi e calunnia aggravata) e del maresciallo Borzacchelli (condannato a 15 anni di reclusione per mafia). Si raccontava, inoltre, di un esposto al CSM del procuratore capo di Firenze a causa della scelta del magistrato di presentare richieste di archiviazione seriali per risolvere il problema della scadenza dei termini delle indagini preliminari di centinaia di processi. Scelta non concordata con il capo dell’Ufficio, come invece il magistrato querelante ha dichiarato a dibattimento.

Durante il processo di primo grado, Sandra Amurri ha dimostrato – anche grazie alle ammissioni dello stesso magistrato – che le circostanze scritte nell’articolo erano tutte vere. Non solo: grazie alla testimonianza dell’allora procuratore capo di Firenze, Ubaldo Nannucci, è emerso in istruttoria che la persona offesa era stata evasiva su alcune circostanze rivelatesi determinanti per accertare la diffamazione.

Ma tutto questo non è bastato. Accade che la verità non basta a sollevare il giornalista dall’accusa di diffamazione. Ciò è particolarmente frequente se la persona offesa è un magistrato. In questi casi, senza che vi sia malafede da parte dei giudici, subentra una minore obiettività e diventa molto complicato riuscire a far assolvere il giornalista. Lo insegna l’esperienza, ma anche le statistiche: i magistrati sono i soggetti ai quali vengono riconosciuti i risarcimenti più alti e che hanno più fortuna nei processi per diffamazione.

La giornalista ha presentato appello contro la sentenza di condanna in data 14 giugno 2012 e per il 2019 è attesa la fissazione del giudizio davanti la Corte di Appello di Roma per tentare di ribaltare l’esito del giudizio di primo grado.

Facendo i conti, dunque, il presunto reato viene compiuto nel 2006: per ottenere il primo giudizio sono trascorsi sei anni (2012), per giungere alla prima udienza – soltanto alla prima udienza – in Corte d’Appello altri sette anni. Totale tredici anni: questa si chiama denegata giustizia. E ci sono aspetti non misurabili, non calcolabili: l’angoscia, l’ansia, di una persona sulla quale pende la spada di Damocle di un giudizio. C’è un altro punto di vista, quello del querelante che chiede la riparazione della presunta lesione della reputazione subita da un articolo: dopo dieci, tredici, quindici anni di quale restitutio in integrum della reputazione parliamo?

GFM

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