L’avv. Andrea Di Pietro, perché l’Italia deve depenalizzare la diffamazione
Per eliminare gli effetti raggelanti sulla libertà di espressione e consentire ai giornalisti di coprire le spese legali con un’assicurazione
OSSIGENO – 29 ottobre 2024 – L’Italia è uno dei ventitré Paesi europei che ancora conserva tra le sue norme di epoca fascista il reato di diffamazione. Il codice Rocco, approvato nel 1930, prevede infatti che chiunque, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Il terzo comma dell’art. 595 del codice penale si riferisce più in particolare all’ipotesi specifica di diffamazione commessa dal giornalista e stabilisce che se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Da non dimenticare poi la sopravvivenza nel Codice penale dell’aggravante, seppure dormiente, della pena della reclusione se il diffamato è un “Corpo” dello Stato tra quelli individuati dalla norma.
LA SENTENZA DELLA CONSULTA – La Corte costituzionale, con sentenza 12 luglio 2021, n. 150, ha recentemente affermato l’illegittimità della pena cumulativa (detentiva e pecuniaria), che era prevista dall’art. 13 della legge sulla Stampa n. 47/1948 per reprimere i fatti di diffamazione, chiarendo entro quali limiti è invece legittima la previsione della pena detentiva alternativa alla pena pecuniaria.
La Consulta, pur riaffermando “l’esigenza che l’ordinamento si faccia carico della tutela effettiva della reputazione in quanto diritto fondamentale della persona”, si preoccupa di precisare che ciò “non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione”.
Pertanto, da un’analisi complessiva del quadro normativo italiano in tema di pena detentiva per la diffamazione emerge che la sanzione del carcere, sopravvissuta alla sentenza della Consulta del 2021, potrà in futuro essere eliminata dal Legislatore anche per i casi più gravi di diffamazione. Tuttavia, a ben vedere, nemmeno la Corte costituzionale arriva mai a sollecitare la radicale depenalizzazione dell’art. 595 c.p., anzi, nel mantenere ferma la pena detentiva quanto meno alternativa alla pena pecuniaria, ha fatto chiaramente capire come la pensa sul punto.
COSA ACCADE A LIVELLO INTERNAZIONALE – Per comprendere quale sia la tendenza su questi temi a livello internazionale, basta citare il recente Dossier elaborato dall’UNESCO, pubblicato in anteprima in Italia da Ossigeno per l’Informazione il 9 dicembre 2022, con il quale l’Agenzia ONU denuncia l’esistenza in numerosi Paesi, tra cui l’Italia, di un “uso scorretto del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione”. LINK
Da questo documento emerge un quadro allarmante: nonostante siano stati fatti importanti sforzi per depenalizzare i discorsi offensivi, “i giornalisti di tutto il mondo continuano a subire accuse penali in casi che non raggiungono quel livello di gravità, spesso in relazione a critiche rivolte a funzionari pubblici o istituzioni. Si registra in generale un aumento del numero di giornalisti detenuti”.
I Tribunali internazionali per i diritti umani, le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni della società civile hanno ripetutamente chiesto la depenalizzazione della diffamazione, per il significativo effetto raggelante che le accuse penali hanno sulla libertà di espressione e per la loro proporzionalità per la tutela della reputazione delle persone.
La campagna volta a depenalizzare la diffamazione, tra gli altri reati legati all’uso della parola, è stata lanciata negli anni scorsi a livello internazionale, regionale e nazionale e ha portato all’abrogazione delle sanzioni penali in un considerevole numero di Paesi. In questi Stati che si sono mostrati più sensibili al tema è prevalsa l’applicazione del principio secondo il quale “il diritto penale andrebbe applicato solo ai casi più gravi di diffamazione e che la reclusione non è mai una sanzione appropriata”.
Più recentemente, attraverso la Risoluzione 39/6 (2018) e la Risoluzione 45/18 (2020), il Consiglio per i Diritti Umani ha espresso preoccupazione per l’uso improprio delle leggi sulla diffamazione per limitare la libertà di espressione e per interferire con il lavoro dei giornalisti – soprattutto attraverso eccessive sanzioni penali – ed ha esortato gli Stati a rivederle e abrogarle secondo i casi per conformarsi agli standard internazionali.
Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla Libertà di Opinione e di Espressione, il Relatore Speciale dell’OAS per la Libertà di Espressione, il Relatore Speciale sulla Libertà di Espressione e l’Accesso alle Informazioni in Africa e il Rappresentante dell’OSCE per la Libertà dei Media hanno ripetutamente chiesto che le norme penali sulla diffamazione siano abolite e che quelle civili invece vengano favorite.
Il Rapporto Globale dell’UNESCO sull’Orientamento del Mondo relativamente alla Libertà di Espressione e Sviluppo dei Media (2021-2022) ha indicato che, nel 2021, almeno 160 Stati membri dell’UNESCO avevano ancora leggi penali sulla diffamazione: “In alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le leggi penali sulla diffamazione continuano ad essere in vigore ma generalmente non vengono utilizzate. Non vengono abolite per inerzia o per l’impressione che non sia necessario, visto che sono cadute in disuso. Tuttavia, il fatto che continuino a esistere può scoraggiare il lavoro dei media e servire da alibi ad altri Paesi per continuare ad abusarne e resistere alla loro abrogazione”.
COSA ACCADE IN ITALIA – Ebbene, in Italia già da qualche anno i tempi sono maturi affinché sia abrogato l’art. 595 del codice penale. Non solo per le continue sollecitazioni provenienti dalla CEDU, ma anche per il progressivo mutamento della sede in cui i contendenti preferiscono scontrarsi quando devono tutelare la propria reputazione asseritamente lesa da un articolo di giornale o da qualsiasi altro mezzo di diffusione.
In materia di diffamazione, si ha la sensazione, al momento non confortata da dati ufficiali, che nei fatti la sede penale stia andando progressivamente svuotandosi per lasciare spazio alla sede civile, vuoi per sfiducia del querelante nel pubblico ministero e nel giudice penale, vuoi perché con l’avvento del processo civile telematico il rito civile è divenuto nel frattempo più rapido e più efficace del processo penale. Pertanto, scegliere di depenalizzare il reato di diffamazione in Italia significherebbe semplicemente prendere atto di quello che già accade nei tribunali.
A ciò si aggiunga che il processo civile per diffamazione tende a spaventare il giornalista più del processo penale. La stessa testata giornalistica coinvolta ai sensi dell’art. 11 L. 47/1948 teme maggiormente la sede civile per i costi elevati delle spese legali e per la notoria severità dei risarcimenti del danno normalmente riconosciuti al diffamato in sede civile, anche in ragione del fatto che non sempre, anzi quasi mai, il risarcimento del danno risulta proporzionato alle reali capacità economiche del giornalista soccombente.
Su questo punto, è importante sottolineare che, insieme alla depenalizzazione del reato di diffamazione, andrebbe introdotto un tetto risarcitorio in sede civile per combattere le liti temerarie milionarie e un obbligo di cauzione a carico dell’attore in misura percentuale predeterminata da versare al giornalista in caso di sconfitta.
Al processo penale, avviato mediante querela, sembra che ormai siano in pochi a ricorrere. I pubblici ministeri che ricevono le querele sempre più spesso chiedono al GIP l’archiviazione che normalmente poi arriva puntuale, pregiudicando non poco la successiva azione in sede civile. Meglio quindi, per chi accusa, andare direttamente dal giudice civile.
I VANTAGGI DELLA DEPENALIZZAZIONE – L’aspetto più importante della depenalizzazione della diffamazione non sarebbe solamente quello di rimuovere la norma incriminatrice e i suoi effetti dissuasivi, giacché in sede penale i giornalisti quasi mai vengono condannati al carcere, quanto piuttosto la possibilità per il giornalista di stipulare una assicurazione per tutelarsi dagli effetti finanziari dei procedimenti per diffamazione dovuti a errori. Infatti, la depenalizzazione consentirebbe di risolvere in via di urgenza il non più rinviabile problema del chilling effect determinato dalle liti temerarie contro i giornalisti, in attesa, si intende, che il Parlamento faccia il suo dovere. Venendo meno la previsione penale, il giornalista potrebbe stipulare una vera e propria assicurazione professionale in grado di fornirgli quella manleva che gli editori offrono sempre più raramente ai giornalisti loro dipendenti o collaboratori. Il paradosso vuole che oggigiorno la diffamazione non sia assicurabile perché è un reato punito a titolo di dolo generico. Oggi con l’attuale configurazione della diffamazione a mezzo stampa, considerata sempre dolosa, è impossibile. Sarebbe come consentire a un rapinatore di assicurarsi per coprire i costi legali dei suoi processi per il reato di rapina. Ovviamente non può farlo come non può farlo oggi il giornalista, che possiamo paragonare a un automobilista che, costretto a guidare la sua auto senza copertura assicurativa, non può avere garanzie per sé stesso, né per i terzi eventualmente danneggiati.
La depenalizzazione, in definitiva, potrebbe determinare, si spera, anche il ridestarsi di un giornalismo migliore, favorendo un impulso più coraggioso verso le inchieste scomode. Un giornalismo indipendente dal potere politico ed economico, più consapevole della sua centralità in un sistema autenticamente democratico, non più annichilito dal terrore di incappare in vicende giudiziarie lunghe e costose a causa di un articolo di giornale il più delle volte mal pagato, quando viene pagato. ADP
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