La Consulta rinvia ma dice già che il carcere per la diffamazione non può restare
Decisione storica dopo 72 lunghi anni di immobilismo da parte del Parlamento che non ha saputo eliminare una delle storture più gravi del sistema sanzionatorio penale
Finalmente la Corte, nell’udienza del 9 giugno 2020, ha deciso. Forse non ha preso la decisione che più speravamo ma sicuramente quella che più ci aspettavamo. Resta il fatto che per la prima volta dopo settantadue lunghi anni di colpevole immobilismo da parte del Parlamento, la Corte Costituzionale ha messo, di fatto, la parola fine a una delle storture più gravi che il nostro sistema sanzionatorio penalistico abbia mai conosciuto.
Il carcere per i giornalisti non aveva senso dopo un mese dall’approvazione della Carta Costituzionale, figuriamoci dopo settanta anni in cui la stampa ha dimostrato, tra mille difficoltà e diffidenze, che l’informazione è il bene più prezioso per una società che ambisca ad essere veramente democratica.
Al netto della delusione per non aver deciso la questione di legittimità in favore della abolizione del carcere per i giornalisti, la scelta della Corte appare quella più corretta sotto il profilo della separazione dei poteri. Non deve ingannare, infatti, la natura interlocutoria del provvedimento diramato dal comunicato stampa della Consulta. A leggerlo attentamente il testo esprime già un concetto: il carcere per i giornalisti è ormai lettera morta. Serve solo la ratifica del Parlamento e se questa non dovesse arrivare in tempo, la Corte a quel punto abbandonerà il riguardo istituzionale mostrato per il potere legislativo e abolirà il carcere il 22 giugno 2021.
Nel frattempo nessun giudice dotato di buon senso applicherà la pena detentiva e dovranno essere necessariamente adottati provvedimenti sospensivi dell’esecuzione delle pene detentive in concreto applicate ai giornalisti. Ossigeno ha dimostrato con evidenza oggettiva, con il dossier TACI O TI QUERELO, che il problema esiste nella realtà di tutti i giorni.
Ci sono oggi in Italia giornalisti colpiti da ordini di esecuzione a pene detentive rese effettive dai cosiddetti cumuli di pena. Si tratta di soggetti che, alla luce del provvedimento della Consulta, per quanto interlocutorio, dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto di attendere la parola fine su questa questione prima di sottoporsi ad una pena detentiva che potrebbe essere poi eliminata dal nostro ordinamento penale.
Tutto resta nelle mani e nella sensibilità dei giudici. Perché non c’è dubbio che nulla sia cambiato sotto il profilo della vigenza delle norme sottoposte al vaglio della Consulta. Restano in vigore fino al 22 giugno 2021 tutte le sanzioni penali detentive della diffamazione e nulla esclude che domani mattina un giudice distratto possa applicarle in concreto, in barba ai principi chiarissimi esplicitati dalla Corte Costituzionale, la quale, tra le tante cose importanti, dice apertis verbis che è ormai indefettibile una rimodulazione del complesso bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale.
Sarà ovviamente decisiva la lettura delle motivazioni dell’ordinanza in commento, ma comunque non sembrano revocabili in dubbio i pilastri della decisione resa nota dall’ufficio stampa della Consulta, i quali poggiano saldamente sopra molteplici stratificazioni di settanta anni di storia democratica del nostro Paese, migliaia di sentenze della Corte di Cassazione e innumerevoli censure subite dall’Italia, sotto questo profilo, in primo luogo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, puntualmente richiamata dalla stessa Corte Costituzionale.
ADP
L’avvocato Andrea Di Pietro è il coordinatore dell’Ufficio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno
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