Elezioni europee. I problemi dei giornalisti oscurati dalla campagna elettorale
Nonostante vari spunti di cronaca i candidati non hanno parlato delle intimidazioni ai giornalisti e delle proposte per impedirle
OSSIGENO 14 giugno 2024 – Centinaia di candidati al parlamento europeo hanno animato la campagna elettorale discutendo i più svariati temi. Ma, a quanto ne sappiamo dalla stampa, nessuno di loro nei comizi ha parlato di come affrontare il drammatico problema delle minacce ai giornalisti impegnati a raccontare ciò che accade. È sorprendente perché da decenni il parlamento europeo e quello italiano discutono per risolvere questi problemi che impediscono ai cittadini di conoscere fatti e opinioni di indubbio interesse pubblico. È un fatto sorprendente anche perché la cronaca ha offerto vari spunti per affrontare l’argomento in termini di attualità.
Questi episodi avrebbero meritato maggior attenzione, avrebbero dovuto far suonare un allarme generale, essendo sintomi di un serio attacco alla libertà. Non solo a quella dei giornalisti, ma a quella di tutti noi cittadini desiderosi di conoscere (anche) le verità più scomode per il potere e per chi vive di affari poco puliti. Perché, a forza di minimizzare la crescente intolleranza per la libertà di pensiero, di espressione, di stampa, le nostre democrazie si indeboliscono.
Alcuni episodi degni di attenzione hanno avuto l’onore della cronaca, molti altri soltanto quella del nostro osservatorio. Ma fra quelli dei quali si è scritto ampiamente ce ne sono di significativi.
Uno ha riguardato il giornalista di Repubblica Massimo Giannini, uno dei commentatori più critici nei confronti del governo Meloni. L’11 gennaio quattro agenti di polizia giudiziaria lo hanno svegliato nel cuore della notte in un albergo di Milano per notificargli una querela per diffamazione a mezzo stampa. Un atto che di solito viene svolto in pieno giorno in redazione o presso l’abitazione o in un ufficio della polizia giudiziaria. Tutti e tre i luoghi sono a Roma. C’è stata dunque una intenzionale drammatizzazione, una forzatura dei tempi, dei luoghi e del modo operativo e qualcuno deve aver deciso di agire così. Il ministro dell’Interno ha presentato le scuse al giornalista. Ma la mancanza di spiegazioni conferma la portata intimidatoria del fatto.
Un altro episodio significativo è quello dei tre cronisti fermati a Roma il 23 maggio nei pressi di via Veneto, vicino al luogo in cui gli attivisti di Ultima Generazione stavano imbrattando i muri mentre le forze dell’ordine cercavano di impedirlo. I tre cronisti sono stati fermati, portati in un commissariato e trattenuti per tre ore per essere identificati. Il fermo ha impedito ai cronisti di fare il loro lavoro che consisteva nel documentare ciò che avveniva nel luogo pubblico dove si stava svolgendo una manifestazione di protesta. Anche in questo caso non sono state fornite spiegazioni chiare ed esaurienti. Si è detto che avevano rifiutato di farsi identificare e che qualcuno non era in possesso del tesserino comprovante l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti. Ma sembra che le cose non siano andate così. Ed è noto che non occorre alcun tesserino professionale (almeno finora) per assistere ed eventualmente filmare ciò che accade nei luoghi pubblici, anche ciò che fanno le forze dell’ordine in assolvimento dei loro compiti. I massimi rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa lo hanno fatto notare al Ministero dell’Interno ottenendo la generica assicurazione che non si ripeteranno fatti del genere.
Sullo sfondo di tutto ciò ci sono provvedimenti già esecutivi (la riforma Cartabia) e altri in discussione in parlamento che riducono la possibilità dei giornalisti di accedere alle informazioni giudiziarie e di pubblicare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare. E ci sono i progetti di legge che, se fossero ben formulati e approvati, potrebbero impedire l’uso scorretto della giustizia che si fa migliaia di volte ogni anno in Italia con le querele pretestuose, infondate, intimidatorie contro i giornalisti. Se ne parla da sei legislature. Queste riforme non passano perché prevale la volontà di tenere i giornali e i giornalisti sotto scacco.
A sorpresa, il 25 maggio il ministro della Giustizia Nordio ha rotto il silenzio governativo sulla questione dicendo che certamente di fronte a una querela infondata non basta che il giudice condanni il querelante a pagare le spese legali, bisogna infliggere una punizione più forte. In proposito, il ministro si è impegnato a introdurre una norma per procedere in tal senso. Vedremo se manterrà la parola e se riuscirà a convincere i parlamentari della maggioranza che anche recentemente hanno mostrato di pensarla diversamente da lui e da noi. ASP
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