Diffamazione. Il Senato di fronte ai paletti europei e della Consulta
Le tensioni politiche e il bilanciamento necessario per difendere la reputazione senza ostacolare la libertà di stampa
OSSIGENO – 16 aprile 2024 – Rieccoci. Per il venticinquesimo anno consecutivo il Parlamento italiano si appresta nuovamente a discutere e a votare (forse ad approvare, stavolta) alcune norme per “riformare” la materia della diffamazione a mezzo stampa.
L’obiettivo principale è quello di abolire la previsione del carcere per i giornalisti colpevoli di aver leso la reputazione altrui. Ma in questo ormai stanco ritorno del sempre uguale – di disegni di legge che da un quarto di secolo e sei legislature non diventano mai legge – nei giorni scorsi si era inserita come una meteora la variante di un senatore della miglior destra, il quale ha firmato emendamenti che rincarerebbero la dose di galera da somministrare ai cronisti colpevoli (fino a oltre quattro anni) da sommare a multe fino a 120 mila euro e all’interdizione dalla professione giornalistica.
A rendere l’iniziativa particolarmente grave era il fatto che il senatore è il relatore dei disegni di legge in discussione al Senato per abolire il carcere. Ora se ne parla al passato, perché poi l’improvvido senatore, davanti alla levata di scudi delle opposizioni e di parte della sua stessa maggioranza, ha fatto marcia indietro e ha ritirato le sue proposte carcerarie. Allarme rosso è cessato presto, dunque.
Ma l’azzardo del “fratello d’Italia” rende ragione del clima di intimidazione che alcuni reparti governativi con l’elmetto vogliono creare intorno alle regole che tutelano la libertà di stampa, cioè il diritto dei cittadini a essere informati.
Infatti, il testo del disegno di legge presentato da un altro “fratello d’Italia”, quello che la Commissione Giustizia del Senato sta ora discutendo, propone sì di sostituire la galera con le multe, ma con multe pesantissime, più l’interdizione dalla professione, più l’obbligo di rettifica senza replica. Il disegno di legge si guarda bene dal prevedere una norma seria ed efficace ai fini di impedire/limitare la querela facile, per esempio, una norma che facesse pagare i danni a chi denuncia senza fondamento giuridico alcuno.
Servirebbe qualche pacato ragionamento intorno a ciò che il Parlamento potrebbe fare per risolvere davvero nel senso giusto la questione delle pene per la diffamazione a mezzo stampa. Se volesse fare davvero un buon lavoro, la Commissione Giustizia del Senato avrebbe due punti forti di riferimento: la sentenza della Corte costituzionale n. 150 del giugno 2021 e l’univoca e costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU) in materia di diritto all’informazione. Ricordiamo quali sono questi due punti.
Nel 2021 la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (la n. 47 del 1948) perché prevedeva il carcere da uno a sei anni e in aggiunta la multa fino a 50mila euro per i giornalisti riconosciuti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa con l’aggravante del fatto determinato. La stessa Corte Costituzionale invece non ha dichiarato incostituzionale l’articolo 595 (terzo comma) del Codice penale del 1930 che, è vero, contempla la pena detentiva da sei mesi a tre anni, ma consente al giudice l’alternativa della multa (sempre 50mila euro nel suo massimo).
A questa decisione la Consulta è giunta sulla base di raffinati e complessi ragionamenti giuridici fermamente ancorati alla giurisprudenza della Corte dei diritti umani.
E, allora, è da qui che bisognerebbe partire, ricordando che la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU) e i principi giuridici espressi dalle sentenze della Corte EDU sono di rango sub costituzionale e immediatamente applicabili negli Stati aderenti al Consiglio d’Europa.
La Corte di Strasburgo si è sempre dichiarata contraria alla previsione nei Codici delle pene detentive per i colpevoli di diffamazione perché in sé sono sproporzionate, anche quando il caso riguarda notizie dolosamente false. Il punto è che prevedere il carcere produce il cosiddetto chilling effect, un effetto agghiacciante, cioè un potente deterrente a esercitare il diritto attivo all’informazione. Insomma, l’autocensura, la peggiore delle censure possibili, per paura delle conseguenze penali.
La reclusione è dunque sempre sproporzionata e ingiustificata? Giudicando casi concreti, la Corte EDU ha stabilito che la reclusione si giustifica soltanto nei casi di gravi lesioni dei diritti fondamentali delle persone o della collettività. I giudici di Strasburgo si riferiscono esplicitamente all’incitamento all’odio (etnico, per esempio) e all’istigazione alla violenza.
Invece per quanto riguarda la pena pecuniaria, la Corte EDU ha stabilito che per non costituire un deterrente della libertà di stampa essa deve essere proporzionata alla gravità dell’offesa e al livello di diffusione del medium (ovviamente), ma anche alla concreta condizione economica del giornalista.
Questi sono i parametri (ormai seguiti anche nei giudizi della Cassazione italiana) e, alla loro luce, diventa evidente quanto grande sia la contraddizione con essi del disegno di legge della maggioranza con le sue multe salatissime. Roba da far chiudere testate non ricche (la gran parte) e ridurre in miseria i (precari) cronisti italiani.
Per la verità, già l’attuale legislazione nazionale è fuori centro rispetto ai principi della Corte EDU. E, infatti, l’Italia è già stata condannata per violazione della Convenzione europea (articolo 10 sulla libertà di espressione e sul diritto all’informazione).
La Corte costituzionale con la sentenza n. 150 del 2021 richiama i parametri della Corte EDU, aderendovi pienamente. Leggiamo: la reclusione appare «manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionata rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero, anche nella forma del diritto di cronaca giornalistica, diritto fondamentale costituzionalmente garantito».
Su questa base è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (carcere più multa).
Ma non l’articolo 595 del Codice penale, sostenendo la Consulta che «la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione».
La Corte si riferisce a quelle circostanze eccezionali individuate dalla Corte EDU: incitamento all’odio e istigazione alla violenza. E fa riferimento anche alla macchina del fango, scrivendo in sentenza che la reclusione possa essere prevista anche «in casi egualmente eccezionali» come «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della oggettiva e dimostrabile falsità degli addebiti stessi».
E aggiunge: «Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professionale giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione».
La Consulta suggerisce anche il ricorso alle sanzioni civili e disciplinari in luogo di quelle penali. Dunque, non esclude la depenalizzazione del reato di diffamazione che, poi, è l’opzione principale avanzata da organismi internazionali, Corte EDU compresa. E poi, rivolta al Parlamento, la Corte costituzionale conclude scrivendo che la sua sentenza «non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione».
Si può dire che sia la sentenza della Corte costituzionale sia la giurisprudenza della Corte EDU appaiono, anzi sono, di cristallina chiarezza. E tracciano ragionevoli binari per il Parlamento italiano per procedere a un’autentica riforma del sistema delle pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa. E non solo.
D’altro canto, la stessa Consulta nel 2020 aveva già considerato «necessaria e urgente una complessiva rimeditazione del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività giornalistica».
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