Diffamazione. Con le prime votazioni il Senato introduce norme punitive allarmanti
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Cancella il carcere ma aumenta le multe di 20-40 volte e resuscita norme punitive del codice penale fascista e altre a protezione di politici e potenti
Il Senato intende dare il colpo di grazia a ciò che in Italia è rimasto del giornalismo-giornalismo. Questo è quanto si deduce dalle votazioni di giovedì 18 giugno 2020 alla Commissione Giustizia di Palazzo Madama sul testo del disegno di legge in materia di diffamazione a mezzo stampa (primo firmatario Giacomo Caliendo). Era la prima seduta utile dopo che la Corte Costituzionale, l’11 giugno precedente, aveva concesso al Parlamento un anno di tempo per abolire la pena del carcere per i colpevoli di diffamazione. L’approvazione dell’intero disegno di legge è prevista per la prossima settimana.
Abrogando la pena detentiva per i giornalisti insieme a un emendamento del relatore Lo Muti, con alcune modifiche proposte dal senatore Mirabelli (Pd), la maggioranza della Commissione Giustizia in poche righe è riuscita a inserire nel disegno di legge le seguenti norme:
- Al reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa, di testate giornalistiche online registrate o della radiotelevisione si applica la pena della multa da 5.000 euro a 10.000 euro.
- Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità, si applica la pena della multa da 10.000 euro a 50.000 euro.
- Alla condanna consegue la pena accessoria della pubblicazione della sentenza.
- In caso di recidiva, è introdotta la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da uno a sei mesi.
- Con la sentenza di condanna il giudice dispone la trasmissione degli atti al competente ordine professionale per le determinazioni relative alle sanzioni disciplinari.
- Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 596.
- Il giornalista e il direttore responsabile non sono punibili se pubblicano, prima dell’esercizio dell’azione penale, proprie smentite o rettifiche idonee a riparare l’offesa.
Vediamo subito quel poco di buono che c’è in questo articolo-chiave del disegno di legge che si trascina da vent’anni in Parlamento. Certamente, l’abrogazione delle pene detentive. Certamente, la non punibilità in caso di pubblicazione di rettifica di quanto detto o scritto. La rettifica e la smentita non devono contenere repliche e la legge dirà anche come deve essere titolata.
Il carcere è sostituito da multe pesantissime, in grado di far chiudere un organo di stampa. Come ha detto nel corso della seduta il senatore Caliendo: la norma è “estremamente afflittiva… draconiana e peggiorativa rispetto a quella detentiva attualmente prevista”.
L’articolo della cosiddetta riforma che stiamo analizzando si guarda bene dal de-fascistizzare le norme scritte per tenere i giornalisti sotto il tallone del potere. Anzi ne introduce di nuove. Intanto, sulla base di un evidente analfabetismo giuridico e giurisprudenziale, è riconfermata la norma fascista del codice penale che vieta di provare la verità di quanto affermato (articolo 596 del codice penale). Viene mantenuta nonostante non sia più applicata dal 1984, quando la Cassazione con la ‘sentenza decalogo’ stabili tra le cause di non punibilità proprio l’aver detto o scritto la verità anche putativa del fatto. Il che potrebbe far pensare che abbiamo a che fare con legislatori che non sanno nemmeno che cosa è la diffamazione.
Il Parlamento repubblicano ora aggiunge ulteriori afflizioni intimidatrici della libertà di stampa perché, in caso di condanna per diffamazione, è introdotto l’obbligo della pubblicazione della sentenza. E il giornalista può anche essere sospeso dalla professione fino a sei mesi. E come se non bastasse, il giudice deferisce il condannato all’Ordine perché disponga ulteriori sanzioni disciplinari. I senatori, tra l’altro, sbagliano indirizzo, perché, da qualche anno ormai, per loro il procedimento disciplinare è demandato ai consigli di disciplina territoriali e nazionale: la materia è stata sottratta alle competenze dell’Ordine.
Giuseppe Federico Mennella
Leggi l’intervista di Repubblica all’Avv. Caterina Malavenda
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