Cortocircuito sul carcere per i giornalisti
Perché la memoria depositata alla Corte Costituzionale appare incongruente rispetto agli orientamenti del Parlamento e della Corte Europea dei Diritti Umani
Aprile doveva essere il mese della decisione, attesissima, sulla legittimità costituzionale dell’articolo 595 del codice penale e dell’articolo 13 della legge sulla stampa n. 47 del 1948. Oggetto di scrutinio doveva essere la parte in cui queste norme prevedono ancora oggi la pena detentiva per il reato di diffamazione che, se commesso con il mezzo della stampa, diventa un problema serio per la professione giornalistica.
La questione è strategica ed è dibattuta da molti anni. Dal 2001 si sono succeduti, infatti, vari disegni di legge che hanno previsto espressamente l’abolizione del carcere per la diffamazione, ma, con fortune alterne, nessuno di essi è mai riuscito a diventare legge dello Stato.
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, dal canto suo, sin dal 1996 (con la sentenza Cumpana e Mazare c. Romania) invita gli Stati membri a rimuovere le norme che prevedono il carcere per i giornalisti perché in contrasto con l’articolo 10 della Convezione EDU.
Successivamente a Strasburgo c’è stata la sentenza Belpietro del 2013 e da ultimo la sentenza Sallusti del 7 marzo 2019. Queste due ultime pronunce, ancora una volta, hanno condannato l’Italia per violazione dell’articolo 10 CEDU. Nonostante l’univoca e costante giurisprudenza europea, sempre critica nei confronti delle norme italiane sul carcere per i giornalisti, il legislatore non è mai riuscito ad approvare una legge abrogativa di quelle norme.
Lo scorso anno, prima il Tribunale di Salerno e poi quello di Modugno-Bari hanno rimesso la questione di costituzionalità alla Consulta che, prima di pronunciarsi, avrebbe dovuto sentire le parti costituite nelle pubbliche udienze del 21 e del 22 aprile 2020.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, anch’esso intervenuto nel giudizio di legittimità, non ha però prestato il consenso alla trattazione camerale della questione, ritenendo necessaria la partecipazione delle parti e insistendo quindi nell’affermazione di principio secondo cui la questione, quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente rientrata, deve meritare un dibattito nell’ambito di una pubblica udienza.
Per completezza deve essere ricordato che il legale del SUGC, Sindacato unitario giornalisti della Campania, che aveva sollevato la questione dinanzi al Tribunale di Salerno, aveva espresso consenso alla rinuncia alla discussione pubblica, così come l’Avvocatura dello Stato che, con una breve memoria, ha sorpreso tutti chiedendo che la questione dell’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena detentiva per i giornalisti sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. Con ciò, di fatto, difendendo il mantenimento dello status quo che prevede una pena fino a sei anni di reclusione per il giornalista condannato per il reato di diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato.
Ed è proprio la posizione inopinatamente assunta dall’Avvocatura dello Stato che ha indotto l’Ordine nazionale a invocare un confronto interno alle istituzioni governative. Occorre infatti comprendere quale sia effettivamente la posizione dello Stato italiano, considerata la palese incongruenza che emerge dalla memoria difensiva depositata dalla Avvocatura rispetto alle pregresse iniziative legislative assunte in materia di abolizione del carcere per i giornalisti. Questo confronto, per ragioni sin troppo ovvie, non può esserci in questo momento storico.
Al netto della accesa polemica poi innestatasi tra Ordine e SUGC sull’opportunità o meno del rinvio dell’udienza, che rischia effettivamente di rimandare sine die una decisione fondamentale per la libertà di informazione, credo che la posizione assunta dalla Avvocatura dello Stato, sia detto con il dovuto rispetto, appaia ormai anacronistica rispetto all’evoluzione giurisprudenziale europea sulla materia.
Già con la proposta di legge Pecorella-Costa presentata l’8 maggio 2008 si prevedeva l’abolizione del carcere per i giornalisti e così con le proposte di legge successive, tutte diverse, tutte naufragate, ma tutte accomunate dalla volontà politica di modificare il regime sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa.
Viene quindi da interrogarsi del perché l’Avvocatura dello Stato abbia imboccato la via del regresso giuridico, assumendo una posizione che appare incurante non soltanto della volontà del Parlamento, ma anche degli ultimi governi in carica, dell’opinione pubblica tutta (basti pensare alla trasversalità del sostegno ricevuto dal caso Sallusti) e, soprattutto, dei continui richiami della Corte EDU.
Per comprendere in che cosa concretamente consista il contrasto giuridico tra le norme italiane che prevedono il carcere per i giornalisti e l’articolo 10 CEDU, non esistono forse parole migliori di quelle spese dalla Corte EDU nella sentenza Cumpana e Mazare c. Romania del 1996, dove si dice efficacemente che “L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo [il carcere, n.d.r.] comporta per l’esercizio da parte dei giornalisti della loro libertà di espressione è evidente e nocivo per la società nel suo complesso. La Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza”.
In tutti gli altri casi, invece, quando si ha a che fare con il giornalismo vero e proprio, indipendentemente da quanto sia grave la diffamazione, la pena detentiva non dovrebbe mai trovare spazio in una previsione di legge.
Avvocato Andrea Di Pietro – coordinatore dell’Ufficio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno per l’Informazione
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