Federica Angeli: “Com’è iniziata la mia guerra contro la mafia”
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Pubblichiamo l’intervento integrale che la giornalista Federica Angeli, cronista giudiziaria del quotidiano “La Repubblica” ha pronunciato il 6 novembre 2018, all’Istituto di Cultura di Bruxelles all’incontro fra cronisti minacciati in Belgio, Francia e Italia promosso da Ossigeno per l’Informazione (vedi)
Mi chiamo Federica Angeli e sono una giornalista di cronaca nera e giudiziaria. Lavoro da oltre 20 anni al quotidiano La Repubblica. Il mio modo di fare concepire il giornalismo è quello di lavorare sul campo, “consumare le suole delle scarpe” è un’espressione che mi rappresenta. Andare sul campo significa respirare l’ambiente, l’umore, le paure, la verità direttamente dalla strada, senza l’intermediazione di nessuno.
Proprio per questo motivo nel corso della mia carriera ho condotto diverse inchieste, sempre nel mio ambito, quello della criminalità organizzata. Così sono stata mesi a contatto con un gruppo che allenava i pittbull per poi fare i combattimenti clandestini, oppure sono stata infiltrata per nove mesi in un gruppo di persone dell’est europa per raccontare il traffico di armi a Roma, da dove arrivavano, dove venivano custodite e come venivano rivendute alle varie organizzazioni italiane.
Nel 2013 decido di fare una inchiesta a Ostia, un quartiere di Roma, il mare della capitale d’Italia. Ostia è anche il quartiere dove sono nata e cresciuta. Quello che volevo dimostrare col mio lavoro era che i clan che operavano in quel territorio erano mafia e non “semplici” criminali. Così, con il codice penale italiano in mano, leggevo l’articolo 416bis (questo mettimelo proprio come si pronuncia non a nome) per vedere se tutti i corollari che lo componevano rispecchiavano quelle che erano le modalità di azione.
Controllo del territorio, forza dell’intimidazione, capacità di permeare il tessuto economico, omertà e condizionamento della vita amministrativa e politica sono appunto le caratteristiche del 416bis.
Le famiglie criminali che comandavano a Ostia erano tre: i Fasciani (i più potenti di tutti), i Triassi, mafia di Agrigento e gli Spada, un gruppo spietato di origine sinti (nomade). Purtroppo per molti anni queste famiglie o sono state ignorate, o sottovalutate oppure aiutate, così sono diventate potenti e mafiose.
Quando comincio a lavorare sul campo nel 2013 parto da una intercettazione che avviene nell’ufficio del funzionario più in alto di Ostia. Armando Spada gli chiede di dare alla sua famiglia il chiosco di due pregiudicati che avevano ammazzato loro due anni prima. Il funzionario lo accontenta e lavorando sul campo scopro che non dà alla famiglia spada quel chiosco ma lo stabilimento più bello di Ostia, l’Orsa Maggiore che per 30 anni era appartenuto a una famiglia perbene. Gleilo portano via nel giro di una settimana. Quando vado con la telecamera nel lido per affrontare il boss vengo minacciata di morte e sequestrata in una stanza. Mi disse Armando Spada che avrebbe ucciso me e i miei figli se avessi pubblicato quello che avevo scoperto.
Da quel giorno è iniziata la mia guerra contro la mafia. La mia vita si complica e vengo messa sotto scorta un mese e mezzo dopo quando assisto casualmente a una sparatoria che avviene sotto casa mia tra il clan Triassi e il clan Spada. Vado a fare i riconoscimenti fotografici delle persone che avevo visto sotto casa mia e i carabinieri mi chiamano 6 ore dopo dicendo che la mia vita era in pericolo.
La difficoltà che ho incontrato non era solo legata alle minacce e alle tante intimidazioni delle famiglie mafiose (per esempio la benzina sotto la porta di casa, la macchina di mia sorella e del mio avvocato a fuoco, un proiettile, minacce scritte su Facebook) ma anche che la cosiddetta società civile non credeva a quello che avevo scoperto. Per molti anni è stata negata l’esistenza di una mafia che parlasse l’accento romano: la mafia esisteva solo al sud. Pensate: la mafia romana oggi non ha un nome, in calabria si chiama ‘ndrangheta, quella campana è la camorra. A Roma non si chiama. Così non c’era mai stata neanche una sentenza della magistratura che riconoscesse una mafia romana, mai. Anche nel mio giornale non credevano che fosse così pericolosa la situazione per me.
All’inizio, e per molto tempo, ero completamente sola. Solo Alberto Spampinato di Ossigeno ha preso a cuore la mia storia e ha iniziato a starmi vicino, a far vedere che qualcuno che non sottovalutava la situazione c’era.
Avere la scorta in Italia crea tanto isolamento, le inchieste sul campo, pensare di potermi ancora infiltrare per scoprire la realtà oggi mi è impossibile e molte persone lo considerano un privilegio non la perdita della mia libertà.
Oltre alle minacce molti giornalisti, compresa me, hanno anche un altro strumento attraverso il quale cercano di metterci il bavaglio: la querela con la richiesta di risarcimento di danni di milioni di euro.
Fare questo mestiere con la schiena dritta è ormai difficilissimo in Italia. I potenti e i mafiosi cercano di intimidirci e di toglierci la voglia di scoprire la verità. Purtroppo per loro c’è chi, come me, crede che il mestiere del giornalista sia quello di raccontare la verità anche a costo di restare soli e isolati. Perché la verità è la prima regola della democrazia. E non possiamo permettere a nessuno di dirci cosa scrivere e di pretendere di raccontare menzogne per poter continuare a portare avanti i loro sporchi affari.
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