Diffamazione. Commento dell’avv. Di Pietro all’ordinanza della Consulta
L’avvocato Andrea Di Pietro, coordinatore dell’Ufficio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno evidenzia i punti salienti della decisione del 9 giugno 2020 in materia di diffamazione a mezzo stampa
Se si dovesse sintetizzare l’ordinanza della Corte Costituzionale, con cui è stato deciso di posticipare al prossimo anno la decisione sulla legittimità del “carcere per i giornalisti”, si potrebbe senz’altro affermare che è nella sostanza una sentenza di accoglimento travestita da ordinanza di rinvio.
Già nel comunicato stampa diramato il giorno dell’udienza si erano scorti passaggi chiave che lasciavano presagire qualcosa di più del solito formale riguardo istituzionale per il potere legislativo. Le motivazioni depositate ora dalla Consulta rafforzano il nostro convincimento, già espresso all’indomani del rinvio (vedi), che la Corte abbia voluto anticipare il proprio giudizio, proprio per non lasciare alibi al Parlamento. Vedremo cosa accadrà nelle more. La Commissione Giustizia del Senato è già a lavoro (fatto lodevole), ma i primi segnali, come scrive su Ossigeno Giuseppe Mennella nel suo ultimo editoriale, sono “allarmanti” (leggi).
Certamente il testo dell’ordinanza costituisce una sonora bocciatura della posizione schizofrenica assunta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, che con una mano promuoveva il disegno di legge abrogativo del carcere, perché ormai in contrasto con l’interpretazione più moderna dell’art. 21 della Costituzione e dell’art. 10 CEDU, e con l’altra scriveva e ribadiva alla Consulta che la norma era perfettamente costituzionale.
La Consulta segue, nel suo argomentare, il filo delle due ordinanze di rimessione dei Tribunali di Salerno e Bari le quali risultano, come riconosce la Consulta, imperniate su ampi richiami alla giurisprudenza della Corte EDU in materia di libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 CEDU e ritenuta di regola violata laddove vengano applicate pene detentive a giornalisti condannati per diffamazione.
Il testo della motivazione in commento, redatto dal Giudice relatore della Corte Francesco Viganó, è denso di riferimenti alla giurisprudenza europea CEDU andata consolidandosi dal 1996 (sentenza Goodwin vs Regno Unito) al 2019 (sentenza Sallusti vs Italia), passando per la nota sentenza del 2004 (sentenza Cumpana e Mazare vs Romania). Nella pronunce indicate, la Corte EDU ha ricordato più volte il proprio insegnamento secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia, rilevando che «se è vero che gli Stati parte hanno la facoltà, o addirittura il dovere, in forza dei loro obblighi positivi di tutela dell’art. 8 CEDU, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone, non devono però farlo in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri». Il timore di sanzioni detentive produce, secondo la Corte di Strasburgo (e ora anche secondo la Corte Costituzionale), un evidente effetto dissuasivo («chilling effect») rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti – in particolare nello svolgimento della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini – tale da riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni.
Le suddette sentenze interpretative dell’art. 10 CEDU hanno ormai ammodernato lo stesso art. 21 Cost. rendendolo incompatibile con la previsione della pena detentiva prevista dagli artt. 595 c.p. e 13 L. 47/48. Ai sensi dell’art. 117 Cost., l’art. 10 CEDU è da considerarsi norma interposta di rango costituzionale interno, al pari dell’art. 21 Cost., al cui cospetto, quindi, il carcere per i giornalisti è divenuto illegittimo.
La Consulta, al termine del proprio ragionamento, abbandona ogni forma di prudenza istituzionale, connaturata al tipo di provvedimento interlocutorio assunto con l’ordinanza in commento, e dice infine le cose chiare e tonde: il bilanciamento volto a trovare un punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti “tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni”. La Corte afferma, apertis verbis, che un simile bilanciamento è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU poc’anzi rammentata, che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui. E ciò in funzione dell’esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri.
In questo senso possiamo affermare che le norme censurate, di fatto, sono già incostituzionali e il regime transitorio sarà interamente devoluto alla sensibilità dei singoli Giudici che dovranno tenere conto che una porzione delle norme sanzionatorie in materia di diffamazione sono già lettera morta, che le condanne a pena detentiva inflitte saranno da rivedere, anche quelle passate in giudicato.
Resta grande l’attesa per quello che vorrà fare il Parlamento su questa materia. La Corte ha fatto un passo indietro, in limine litis, per non creare un vuoto normativo e lasciare a presidio della sanzione penale la sola pena pecuniaria, di fatto ritenuta dalla Corte meritevole di essere rivista e adeguata. Perché è ormai necessaria, scrive la Corte, una rimodulazione delle “strategie sanzionatorie” (che non possono essere quelle all’esame del Senato!), in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi; vittime – prosegue la Corte su questo punto – che sono oggi “esposte a rischi ancora maggiori che nel passato”.
Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato. Non è quindi vero che la Corte si sia preoccupata solo delle sorti dei giornalisti, perché quest’ultimo passaggio smentisce questo tipo di illazione. La diffamazione è sempre stato un reato potenzialmente molto offensivo e questo non dovrà essere dimenticato da chi adotterà le nuove norme, prestando attenzione, però, a distinguere, come esorta la Corte Costituzionale, tra la semplice diffamazione commessa per errore e in buona fede dalla diffamazione assistita da dolo specifico, situazione tipica di chi usa l’informazione per demolire la dignità delle persone.
È infatti concepibile, in linea di principio, come ribadito dalla stessa Consulta, in totale sintonia con la Corte EDU, la previsione di pene detentive quando la diffamazione assuma i connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, come nel caso in cui le affermazioni volutamente lesive implichino una istigazione alla violenza ovvero convoglino messaggi d’odio. Anche su questo specifico punto, il disegno di legge in discussione in Senato sembra ben lontano dal soddisfare i dettami della Corte Costituzionale, nonché le aspettative di chi ha a cuore le sorti dell’Informazione libera. ADP
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