Libertà di stampa

Impunità. L’avvocato Di Pietro, qualcosa sta cambiando

Questo intervento è stato pronunciato dall’Avv. Andrea di Pietro, coordinatore dell’Ufficio Legale di Ossigeno, il 22 ottobre 2018 a Roma, nella Sala Koch del Senato, al convegno “Giornalisti minacciati, colpevoli impuniti”

di Andrea Di Pietro – Il mio intervento rispecchierà il punto di vista di un avvocato impegnato quotidianamente sul fronte della difesa della libertà di informazione.

Un fronte reale, quello dei Tribunali e delle aule di giustizia, dove quotidianamente trattiamo di querele temerarie o siamo impegnati in processi in cui il giornalista è vittima di minacce, di intimidazioni, di pressioni indebite. Questi due fenomeni esprimono molto bene l’enormità del paradosso che vive la professione giornalistica.

Se calassimo questo paradosso in un contesto concreto, ci renderemmo conto che, da un punto di vista penalistico, il giornalista risponde di un reato – la diffamazione – che è considerato sempre doloso. Per esso è prevista una pena detentiva edittale massima di ben sei anni di reclusione. È una pena edittale che può comportare l’applicazione di misure cautelari personali (sequestri preventivi, perquisizioni).

In sede civile, il paradosso è ancora più bruciante, perché tocca gli aspetti patrimoniali ed economici del giornalista. Il giornalista non può mai invocare il diritto di manleva, né il diritto a essere sollevato dalle questioni economiche derivanti dalla sua professione, perché – come il caso de l’Unità insegna – la clausola di manleva, essendo un contratto atipico non previsto dal codice civile, non vige sostanzialmente mai se non in quei ormai rarissimi casi di grandi testate che ancora assicurano l’assistenza legale ai giornalisti.

Nonostante questa condizione della professione, dal 2017 sono accadute cose molto importanti per quanto riguarda la punizione degli autori dei crimini contro i giornalisti. Sono stati perseguiti alcuni reati, sono state elevate alcune imputazioni, sono state contestate alcune circostanze aggravanti come mai prima. Contestazioni che hanno retto all’urto del dibattimento e riconosciute come fondate da sentenze pronunciate quest’anno.

Il mio riferimento, ovviamente, è ai noti casi di Daniele Piervincenzi e Paolo Borrometi, ma anche a uno meno noto, ma ugualmente importante, anzi molto importante dal punto di vista giuridico, che ha visto come protagonista il reporter della RAI Nello Trocchia.
Piervincenzi e Borrometi, con modalità diverse, hanno subito una gravissima compressione del diritto di svolgere la professione mediante gravi atti di violenza gravi e atti di minaccia. Piervincenzi è stato aggredito fisicamente, colpito da una testata: il fatto ha profondamente scosso l’opinione pubblica, anche perché le immagini televisive erano raccapriccianti e sono state viste e riviste decine di volte. Abbiamo visto un soggetto che ha reagito al fastidio arrecato dal giornalista che gli stava semplicemente domande. Ma l’elemento caratterizzante di questa vicenda è che l’aggressore, Roberto Spada, ha agito sentendosi forte del sostegno ambientale e del potere di intimidazione dell’appartenenza a un clan mafioso. Spada è stato condannato dal Tribunale di Roma alla pena di sei anni di reclusione per i reati di lesioni personali e di violenza privata, aggravati dalla circostanza di aver agito utilizzando un metodo mafioso.
Paolo Borrometi è stato vittima di minacce di morte da parte di Francesco De Carolis. Abbiamo potuto ascoltare ciò che gli è stato detto e la sua vicenda è stata oggetto di un processo penale di fronte al Tribunale di Siracusa che ha portato alla condanna di De Carolis alla pena di due anni e otto mesi di reclusione. Una pena significativa, superiore al limite oltre il quale non è più possibile concedere la sospensione condizionale della pena.

Anche in questo caso è stato contestato il reato di violenza privata associato alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 del D.L. n. 152/91, ovvero l’aver agito utilizzando un metodo mafioso, ovvero di essersi avvalso della forza di intimidazione derivante dall’appartenenza al clan mafioso dei Bottaro-Attanasio.
Il nostro ordinamento penale non è attrezzato per contrastare i reati commessi nei confronti dei giornalisti, perché li tratta come se fossero vittime comuni e non accordando loro una protezione ulteriore finalizzata non solo a proteggere la persona fisica ma a tutelare anche la funzione stessa dell’informazione.

Da molti anni Ossigeno chiede che per i reati commessi ai danni di giornalisti mediante violenza o minaccia sia prevista una circostanza aggravante specifica, volta a tutelare la libertà di informazione intesa come bene collettivo e non come privilegio del singolo giornalista.

Nei casi di Piervincenzi e Borrometi se non fosse stata addebitata l’aggravante del metodo mafioso, gli imputati avrebbero avuto una pena ridicola, e questi due processi sarebbero stati completamente svuotati di significato.

Clamorosa è stata anche – dal punto di vista giuridico – la vicenda di Nello Trocchia, all’epoca giornalista della trasmissione NEMO di RAI2. Stava effettuando un servizio sull’omicidio di Omar Trotta. Questo suo lavoro gli è stato impedito dal fratello della vittima, Filippo Trotta, che ha aggredito lui e il suo operatore con calci, pugni, insulti – anche di questo abbiamo la testimonianza video – e con il danneggiamento della strumentazione tecnica. Ebbene, anche qui – ecco perché parliamo di un anno veramente straordinario dal punto di vista delle novità – per la prima volta è stato contestato all’aggressore, oltre al reato di violenza privata e lesioni personali, il reato in interruzione di pubblico servizio.

Cito dal capo di imputazione: “Trotta è accusato del reato previsto e punito dall’art. 340 del Codice Penale perché serbando la condotta descritta al capo (A) – ovvero le lesioni e la violenza – cagionava l’interruzione e turbava la regolarità del servizio pubblico di informazione televisiva per la trasmissione NEMO in onda su RAI2 cui erano deputate le riprese audio e video curate da Trocchia Nello e Riccardo Cremona”. Quindi, si riconosce a questo gesto di violenza comune un significato ulteriore: non è stato impedito soltanto su un fatto specifico, ma è stato interrotto un servizio di carattere pubblico.

Questa contestazione non si era mai verificata prima.

I tre casi – Trocchia, Piervincenzi, Borrometi – sono casi pilota di una nuova tendenza della magistratura che mai come in quest’ultimo anno si è fatta carico di difendere la libertà di informazione e combattere l’impunità con tutti gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione. In passato ciò non accadeva, adesso accade forse anche per merito di Ossigeno per l’informazione e della sua decennale opera di sensibilizzazione su questioni delle quali non si parlava o se ne discuteva con una sorta di imbarazzo da parte degli stessi giornalisti.

Il sindacato e l’Ordine professionale dovrebbero restare uniti e agire perché l’informazione sia libera dalle prevaricazioni e da fenomeni di impunità. Per questo occorrerebbe anche riconoscere al giornalista uno status giuridico speciale, corrispondente alla tutela offerta dall’articolo 21 della Costituzione alla libertà d’informazione. Non si tratterebbe di privilegi riconosciuti ai singoli operatori, ma di uno strumento per garantire ai cittadini una più alta qualità dell’informazione. Infine, a chi si affaccia a questa professione con il rischio di essere travolto da processi temerari o aggressioni fisiche spesso impunite deve essere garantita la serenità necessaria per svolgere al meglio una funzione di rilevanza sociale e democratica.
ADP

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