Libertà di stampa

Roma. Uno dei giornalisti fermati dalla polizia, non è vero che non mi sono fatto identificare

Roberto Di Matteo ha scritto questo intervento per Ossigeno – Dice: dopo quello che ho vissuto ho paura, non capisco fin dove possono spingersi le forze dell’ordine

OSSIGENO 6 luglio 2024 – Mi chiamo Roberto Di Matteo Sono un giornalista freelance, uno dei tre fermati dalla polizia, il 23 marzo scorso, senza alcun motivo. Ho realizzato centinaia di video reportages, in Italia e in varie parti del mondo, anche in paesi meno sicuri dell’Italia: Ucraina, Venezuela, Guatemala, Polonia…. Me ne sono successe di cose!

Lo so che chi fa il mio lavoro può avere seri problemi con la polizia, anche se rispetta le regole. Ho visto come vanno le cose. Nonostante questa esperienza, sono ancora scioccato da ciò che mi è accaduto quel giorno a Roma dopo che ero stato identificato dalla polizia dimostrando di essere un giornalista: sono stato fermato, trattenuto in un commissariato e trattato come se fossi un criminale.  Questo trattamento mi ha scioccato e ora ho paura, perché non capisco cos’altro potrebbe succedermi nel mio paese mentre faccio il mio lavoro.

Quel giorno hanno fermato me e due miei colleghi. Non so dire se alla base del fermo e del trattamento che la polizia ci ha riservato ci fosse una regia o una volontà intimidatoria. Però posso dire – e per me è un fatto gravissimo – che gli agenti che hanno proceduto al fermo mi sono apparsi convinti di agire correttamente e di avere dalla legge il potere di agire in quel modo.

Io e i miei colleghi abbiamo provato in ogni modo a spiegare che non potevano fermarci mentre svolgevamo il nostro lavoro. Ci siamo appellati al diritto di cronaca. Abbiamo detto. che non potevano vietarci di usare i telefoni, che non potevano portarci via dal luogo dove ci trovavamo per fare il nostro lavoro. Non c’è stato niente da fare.

La loro convinzione di operare correttamente è stata irremovibile. Uno degli agenti è arrivato perfino a dire (più o meno testualmente): ho il codice penale in macchina, tu non hai niente da insegnarmi. Come se possedere una copia del Codice gli conferisse la competenza e il potere di trattarci in quel modo. Ripetevano come un mantra: siamo agente di polizia, questa è un’operazione di polizia. Dovete fare quello che diciamo. Noi ascoltavamo.

Sono un giornalista e una persona mite. Non mi verrebbe mai in mente di discutere o opporre resistenza a uno o più agenti di polizia impegnati nel loro lavoro, anche se mi rendessi conto che hanno torto. Perciò, come hanno fatto anche i miei colleghi, ho accettato di riporre il telefono cellulare nello zaino. Poi, quando è arrivata la volante, sono entrato in auto senza fare storie e tutto il resto.

Ciò che è accaduto, io e i miei colleghi lo abbiamo raccontato e ripetuto più volte con dovizia di particolari: la cella, la perquisizione, il verbale per noi incompleto. Pensavamo che bene o male la vicenda, seppur grave, si fosse chiusa così.

Invece il vero problema è nato dopo, con tutte le implicazioni correlate, dal comunicato diffuso della procura secondo il quale noi tre eravamo stati portati in commissariato perché non ci eravamo fatti identificare dimostrando di essere dei giornalisti.

Questo non è vero! Come possono dirlo? Evidentemente gli agenti che ci hanno fermato hanno fornito una relazione di servizio che permette di dirlo, che ha dato modo al Ministro Piantedosi di dire in conferenza stampa che c’era stato un equivoco.

Non capisco. Perché mai io avrei dovuto rifiutare di farmi identificare, sapendo che bastava questo per andare a fare il mio lavoro? Non riesco proprio a spiegarmelo. Per me è devastante.

Mi chiedo: se un servitore dello Stato mente o riferisce i fatti in modo impreciso e il Ministro accetta la sua versione senza verificare se i fatti sono andati proprio in quel modo, fin dove possono spingersi le forze di polizia di un paese democratico? Fino a che punto possono esercitare l’uso legittimo della forza fisica? Dopo quello che ho vissuto non so rispondere a questa domanda e questo mi fa paura.

Eppure non sono un novellino. L’ho già detto, ho una certa esperienza, avendo realizzato centinaia di reportage in Italia e all’estero. Ho filmato situazioni spaventose in aree di conflitto. Abusi di potete da parte delle forze dell’ordine ne ho visti e subiti, tanti.

In Donbass sono stato trattenuto coi fucili puntati in faccia da nazi-battaglioni ucraini che hanno voluto controllare uno per uno i miei filmati. In Guatemala agenti della polizia messicana corrotti hanno strappato il mio visto regolarissimo dopo che avevo rifiutato di pagare una mazzetta. Al confine fra Ucraina e Polonia sono stato rinchiuso in una celletta, interrogato dall’SBU (il servizio di sicurezza dell’Ucraina) e respinto come indesiderato con motivazioni false scritte nero su bianco. In Venezuela sono stato arrestato e incarcerato con accuse pretestuose perché non volevano che raccontassi quel che avveniva.

Con tutto ciò non riesco a credere che certe cose possano accadere a un giornalista nella mia Italia.

Roberto di Matteo

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