Condannato per un titolo non suo fa ricorso a Corte Strasburgo
51mila euro di risarcimento – Mimmo Pelagalli, collaborava con un giornale che non c’è più
OSSIGENO 28 luglio 2023 – Il giornalista Mimmo Pelagalli è stato condannato in via definitiva a 25 anni di distanza dai fatti che gli sono stati contestati con una causa civile per danni da diffamazione. Si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati e ora ha deciso di fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La sua vicenda mostra più di uno dei trattamenti punitivi che la legislazione italiana italiana riserva ai giornalisti accusati di diffamazione: l’interminabile durata dei procedimenti, la procedibilità sia penale che civile, l’incredibile obbligo imposto all’autore dell’articolo di farsi carico anche della parte di responsabilità proprie dell’editore e del direttore responsabile quando il giornale su cui ha pubblicato l’articolo contestato non è più attivo… Infatti Mimmo Pelagalli era stato querelato per un errore materiale nel titolo di un suo articolo (solo nel titolo) e il tribunale penale lo aveva prosciolto vent’anni fa. Invece il tribunale civile lo ha ritenuto responsabile di danni da diffamazione, con una condanna che solo ora, in Cassazione, è divenuta definitiva, per cui sul capo del giornalista incombe oggi una richiesta di risarcimento danni per diffamazione da 51mila euro.
Tutto per quel titolo (“Teano, truffa alla IMEC. Spuntano altri indizi per i tre alla sbarra”) che non ha fatto neppure lui (come avrebbe potuto dall’esterno della redazione?), ma qualcuno che stava in redazione per incarico del direttore e dell’editore.
Il titolo apparve in testa al suo articolo di cronaca giudiziaria, sul Corriere di Caserta, il 29 maggio 1998. Mimmo Pelagalli era un giovane collaboratore esterno della testata, come tutti i collaboratori esterni inviava da fuori i pezzi alla redazione, solo il testo, non era lui a fare il titolo, né l’impaginazione.
LA VICENDA – Quel lontano 25 maggio 1998 Mimmo Pelagalli era stato inviato in tribunale dal Corriere di Caserta. Lavorava con un piccolo computer portatile dal quale invia in redazione gli articoli che poi venivano esaminati e impaginati dai giornalisti che lavoravano all’interno della redazione. In quell’inchiesta giudiziaria due coniugi erano indagati, non erano rinviati a giudizio. Pertanto, quando lessero nel titolo di essere indicati come già “alla sbarra”, lo considerarono diffamatorio e querelarono il giornale e il giornalista “per danno morale provato in re ipsa”. Chiesero oltre un miliardo di lire di risarcimento danni. A livello penale la querela fu archiviata. Persero in primo grado, anche la causa civile, fecero appello e persero ancora (ottenendo la ripartizione delle spese processuali e legali), fecero infine ricorso in Cassazione e lì emerse “la questione dell’autonoma valenza diffamatoria del titolo”.
Intanto nel 2014, l’editore ha dichiarato fallimento e così anche la parte di risarcimento spettante in solido all’editore è caduta sulle spalle del giornalista per quel famoso titolo che lui non ha mai fatto. E ora a marzo 2023 la Cassazione ha confermato la sua condanna.
IL GIORNALISTA – A Ossigeno per l’informazione Mimmo Pelagalli spiega: “Io lavoravo fuori dalla redazione. Con le tecnologie editoriali di quel tempo, non ero in condizioni di formulare io stesso il titolo, non avevo alcun accesso al sistema editoriale del giornale né fisicamente alla redazione. Con gli strumenti telematici disponibili i miei articoli potevano essere traslati nel sistema editoriale del giornale soltanto da altri, e solo da loro potevano essere impaginati e titolati. Se passa il principio affermato da questa sentenza si crea un pericoloso precedente per tutti i collaboratori esterni dei giornali”. GB
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