Diffamazione. In Italia pesa anche la durata dei processi
OSSIGENO 9 dicembre 2022 – di Andrea Di Pietro – I nuovi dati e le considerazioni dell’ UNESCO, diffusi in collaborazione con Ossigeno per l’Informazione (leggi il documento), denunciano l’incremento a livello internazionale dei casi in cui si riscontra un’eccessiva e indebita pressione giudiziaria sui giornalisti, un aumento del ricorso alle pene detentive e la mancata depenalizzazione del reato di diffamazione, almeno nei casi meno gravi, in cui il giornalista ha agito in buona fede ed è caduto in errore senza volontà di offendere la reputazione dei soggetti coinvolti.
L’occasione è importante anche per fare il punto sulla situazione dell’uso indiscriminato delle querele temerarie in Italia. Il quadro giuridico italiano, che ha consentito l’abuso del diritto di querela per diffamazione, non è mutato come avrebbe dovuto negli ultimi anni.
Più volte il Parlamento italiano è stato vicino all’approvazione di una riforma della legge sulla Stampa, ma ogni volta si è persa l’occasione per un’operazione di ammodernamento giuridico che ormai non è più procrastinabile, dato che in Italia il giornalismo è ancora regolato da una legge del del 1948, la numero 47.
Alla mancanza di adeguamento delle norme segue poi una profonda crisi dell’editoria, del mercato delle notizie e, conseguentemente, della figura del giornalista, della sua etica e della sua indipendenza professionale.
L’unica significativa novità in materia di miglioramento della condizione di disagio economico e giuridico del giornalista è rappresentata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha eliminato – purtroppo solo parzialmente – la pena detentiva per il reato di diffamazione, reato normalmente contestato ai giornalisti. Solo parzialmente perchè ancora oggi il giudice può, nei casi considerati più gravi, “scegliere” tra pena detentiva e pena pecuniaria. Il miglioramento è rappresentato dal fatto che prima dell’intervento della Consulta il giudice non aveva scelta, era costretto ad applicare la pena del carcere per la diffamazione a mezzo stampa e non sono mancati in passato numerosi casi di giornalisti che hanno varcato la soglia degli Istituti di pena.
Ad ogni modo, la parte del leone, sul terreno delle vessazioni che subisce il giornalista italiano nell’esercizio della professione, non è tanto la minaccia della pena, ma quanto la minaccia del processo, che, come insegnava il grande Giurista Carnelutti, è già una pena in sé, tra spese legali, ansie di non farcela a sostenere il peso del processo, la condizione di isolamento spesso inflitta dagli stessi colleghi, dal direttore, o dall’editore che in taluni casi ha ritirato la disponibilità a manlevare il giornalista o che è fallito durante la causa. Sono innumerevoli le angosce che vive l’operatore dell’informazione in questo momento storico in Italia.
Cosa fare quindi contro le querele temerarie? Quale rimedio è possibile?
Innanzitutto occorre intervenire sulla durata e sui costi del processo. La sentenza che deve regolare una disputa tra il giornalista e il suo accusatore dovrà essere tempestiva. Anche la Commissione Europea ritiene che la risposta dei giudici ad ogni causa che abbia le caratteristiche della temerarietà, che sia in malafede e che miri a zittire e intimidire il cronista di turno, debba essere rapida, per non tenere troppo tempo il giornalista sotto scacco.
Perché una democrazia sia sana e prospera è necessario che le persone possano accedere attivamente alle informazioni di pubblico interesse: questo principio emerge dall’ultimo testo del progetto di Direttiva europea Anti-SLAPP, che dovrà passare al vaglio del Consiglio Europeo e dell’Europarlamento.
Si chiami “rigetto anticipato” o “archiviazione tempestiva”, la richiesta di Bruxelles ai 27 Paesi membri è quella di muoversi in fretta ogni volta che ad esempio una causa civile per risarcimento danni o una querela per diffamazione in sede penale arrivino all’esame di un giudice: il magistrato è invitato a valutarne – da subito – la pretestuosità e la rilevanza sotto il profilo della partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Non perché questa valutazione non avvenga, ma perché di solito avviene troppo tardi. Nel sistema giuridico italiano ad esempio esiste già la definizione di lite temeraria, e il codice di procedura civile prevede già che si possano accertare e sanzionare comportamenti in malafede o per colpa grave; ma tale accertamento può avvenire solo al momento della sentenza. E quando siano in gioco informazioni di interesse pubblico, notizie rilevanti per la salute, per la democrazia, sulla corruzione o sull’ambiente, aspettare una sentenza in processi che in media durano sei anni, implica un vuoto informativo, un oscuramento del diritto di sapere, che si traduce in un prezzo troppo alto per la collettività, per l’equilibrio democratico.
Nei limiti delle competenze dell’Unione, credo che queste misure siano un importante segnale dato ai governi e ai parlamenti nazionali: finalmente si chiede agli stati membri di fare qualcosa, e ai giudici di tener conto dell’interesse pubblico e della libertà di espressione. Ogni volta che ci si occupa di SLAPP, di cause temerarie che interferiscono con il diritto dei cittadini a partecipare al dibattito democratico, di querele che ostacolano la presa di coscienza dell’opinione pubblica su questioni ambientali, di salute, di corruzione, si dovrebbe infatti tener sempre in considerazione la mole di informazioni andate perdute, taciute, sepolte negli hard disk di giornalisti e attivisti intimoriti, minacciati, ricattati, tenuti in sospeso. Nel limbo, nell’attesa, ecco dove inizia l’agonia della partecipazione democratica.
L’Avv. Andrea Di Pietro è il coordinatore dell’Ufficio Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno
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