10 maggio. L’intervento dell’avv. Andrea Di Pietro
Questo intervento è stato pronunciato il 10 maggio 2019 a Montecitorio durante il convegno “Molta mafia. poche notizie” ,promosso da Ossigeno in collaborazione con Odg Lazio, con il patrocinio dell’UNESCO,per celebrare la Giornata Mondiale per la libertà di stampa vedi
Dispiace ogni anno dover constatare lo stato di immobilismo cronico in cui versa l’informazione e soprattutto la categoria dei giornalisti.
In una giornata in cui dovremmo celebrare con entusiasmo la centralità della libertà di stampa in un Paese come il nostro, che ambisce a essere democraticamente avanzato, dobbiamo invece rammentarne le solite difficoltà e gli ostacoli che ne impediscono di fatto il pieno esercizio.
Si è detto delle minacce e delle aggressioni che i giornalisti subiscono nell’esercizio della professione. Non serve ricordare i fatti più gravi. Li conosciamo.
Non serve rammentare quanti giornalisti oggi vivono sotto scorta e quanti invece non hanno ancora avuto il coraggio di denunciare la loro condizione per timore di ritorsioni o solo per pudore personale.
L’innegabile merito di Ossigeno per l’Informazione è stato proprio quello di monitorare e raccontare questi fenomeni e non lasciare nell’isolamento queste persone.
Si è detto, anche, di come il giornalista, quando non viene vessato da fatti violenti, sia oggetto delle c.d. querele temerarie, strumentali all’obiettivo di farlo desistere nel suo impegno professionale.
E si è detto, ancora, di come le attuali norme giuridiche siano assolutamente inadeguate per quanto concerne il contrasto delle querele temerarie.
A questo deve aggiungersi, inoltre, il progressivo dileguarsi degli editori e la conseguente compressione dei diritti sindacali e retributivi.
Questo quadro (minacce costituenti reato e minacce da azioni legali ma temerarie) non esaurisce, tuttavia, il catalogo delle problematiche legale alla professione giornalistica e quindi alla libertà di stampa.
Fa un certo effetto doverlo ammettere, ma è stato il legislatore il soggetto che ha storicamente introdotto la peggiore delle minacce per i giornalisti: il carcere.
Questa limitazione della libertà di stampa è quella più dolorosa da accettare, perché è lo Stato italiano, in un “momento” di totale schizofrenia giuridica (che dura ormai dal 1948), che con la mano destra approvava l’art. 21 della Costituzione, fondamento della libertà di stampa del nostro Paese, e con la mano sinistra introduceva una norma gravemente illiberale come l’art. 13 legge n. 47/48 che prevede ancora oggi una pena di sei anni di reclusione per la diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato.
Finalmente, grazie alla decisione di un giudice di Tribunale di Salerno, il dottor Giovanni Rossi, oggi questa norma è al vaglio della Corte Costituzionale.
Che cosa farà la Corte Costituzionale? È difficile dirlo.
Penso che dichiarerà l’illegittimità costituzionale della norma, abolendo definitivamente e finalmente il carcere per i giornalisti, con ciò sostituendosi PER L’ENNESIMA VOLTA al legislatore, che in materia di libertà di stampa, dal 1948, non ha mai voluto o non ha mai saputo rendere effettivo l’articolo 21 della nostra Costituzione.
Infatti, tutti gli avanzamenti giuridici in materia di BILANCIAMENTO tra libertà di stampa e diritti della personalità contrapposti noi li dobbiamo alla magistratura (che in primo luogo ha di fatto abrogato l’art. 596 c.p.):
- Informazione vs reputazione: sentenza c.d. decalogo del 1984;
- I principi di garantismo in materia di intervista: SS.UU. del 2003;
- Estensione delle garanzie costituzionali alle testate on-line: SS.UU. Penali del 2015 e SS.UU. Civili del 2016;
- Informazione vs Oblio: decideranno le SS.UU.;
- Responsabilità penale del direttore di testata on-line: Cass. di gennaio 2018;
- Abolizione del carcere: deciderà la Corte Costituzionale.
Insomma: su questa materia il legislatore si è sempre ben guardato dal metterci mano.
L’unico tentativo di abolizione del carcere da parte del legislatore c’è stato nell’ultima legislatura con il disegno di legge di riforma della diffamazione. Inutile ricordarvelo: il progetto di riforma si è arenato miseramente ed è diventato materiale da archivio.
La CEDU nel frattempo è dal 1996 (con la sentenza Cumpana e Mazare c. Romania) che ricorda agli Stati membri che il carcere per i giornalisti è in contrasto con l’art. 10 CEDU.
Poi c’è stata la sentenza Belpietro del 2013 e da ultimo la sentenza Sallusti del 7 marzo 2019.
Queste due ultime sentenze, in particolare, hanno condannato l’Italia per violazione dell’art. 10 CEDU. Nonostante questa giurisprudenza granitica, il legislatore non ha mai sentito l’urgenza di intervenire.
Ossigeno ha pubblicato il dossier Taci o ti querelo con cui ha dimostrato con dati ufficiali del Ministero della Giustizia che il carcere in Italia non è solo una minaccia ma una norma che viene applicata in concreto e in misura rilevante.
Sfido chiunque a trovare un’altra professione di tale rilevanza e di tale impatto sociale come quella giornalistica che viva le stesse angosce, gli stessi timori.
Quando ci si interroga se in Italia abbiamo libertà di Stampa si deve rispondere di no. È una libertà di facciata, puramente immaginaria.
Come ci si può sentire liberi quando le minacce arrivano dalla criminalità, dalle azioni giudiziarie e finanche dalla legge?
Concludo con le parole della CEDU riportate nella sentenza Cumpana e Mazare c. Romania del 1996: “L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo [il carcere] comporta per l’esercizio da parte dei giornalisti della loro libertà di espressione è evidente [era evidente già nel ’96!] e nocivo per la società nel suo complesso. La Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza”. In tutti gli altri casi è inammissibile.
Avv. Andrea Di Pietro
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